C’è posto per la gentilezza nel calcio? Chi segue il mondo del pallone è abituato a personaggi che si proclamano “re”, ad altri che si paragonano a Dio, a chi non accetta una sconfitta, a società che si accreditano più titoli di quelli riconosciuti; ciò che però più colpisce, al di là del folklore, è la cultura diffusa, se a tutti i livelli sembra così difficile coniugare competitività con correttezza e rispetto. Tuttavia esempi in controtendenza ve ne sono; uno lo troviamo in un libro dedicato ad Andriy Shevchenko dal titolo Forza gentile (con Alessandro Alciato, edizioni Baldini+Castoldi).
Paolo Maldini così si esprime nei suoi confronti: «un calciatore unico: per la sua maniera di essere e di giocare. A chi mi chiede come segnasse Sheva, rispondo di prendersi del tempo per ascoltare la risposta: di destro, di sinistro, di testa, al volo, di rapina, di velocità, di astuzia, di tacco, di punta, cambiando direzione all’improvviso. Non lo si può ingabbiare in nessuna categoria, Sheva è Sheva, poi ci sono tutti gli altri». Qui sta la forza. José Mourinho sottolinea l’altra chiave di lettura: «l’ho avuto al Chelsea e ho incontrato un gentiluomo». Vediamo di approfondire.
Crescere ai tempi del crollo dell’URSS
Nato in Ucraina nel 1976, come tanti fu travolto dalla tragedia di Chernobyl: sin da piccolo determinato a coltivare una grande passione per il football, Andriy viene selezionato per sostenere alcuni allenamenti nel settore giovanile della Dynamo Kyiv; ma il 26 aprile 1986 il percorso appena avviato venne interrotto dal disastro causato dal grave incidente avvenuto alla centrale nucleare di Chernobyl, sita a circa 150 km dall’abitazione di famiglia: «avevo appena iniziato un provino alla scuola calcio della Dynamo, quando è scoppiato il reattore numero 4». Le autorità non presero iniziative ufficiali se non un mese dopo, trasferendo la popolazione residente attorno alla centrale, iniziando dai bambini, in campi allestiti appositamente lontano da essa. Ma le radiazioni non attesero le insabbiature del regime, ed anche la famiglia Shevchenko rischiò di subirne le conseguenze quando il piccolo Andriy portò dentro casa, un appartamento di 40 mq, un pallone che “bruciava, si scioglieva, accartocciandosi su sé stesso”: un pallone radioattivo che il padre, dipendente dell’Esercito, fece appena a tempo a neutralizzare.
Il contesto in cui Andriy cresce è quello del mondo comunista alla vigilia del crollo dell’URSS. «Degli amici con cui sono cresciuto ne è rimasto vivo uno solo: droga, alcol, armi, ecco i loro killer. Vedevano nel crimine l’unico sbocco possibile per tirare a campare. Figli del male e della disperazione, dei peccati di un Paese che si stava sgretolando. Una volta sono tornato a casa con il naso rotto, le labbra spaccate, un dolore lancinante. Ero finito in mezzo ad una rissa, mia mamma ha fatto fatica a riconoscermi. Da quel momento ho iniziato a odiare la violenza: purtroppo ne ho vista abbastanza da saperla riconoscere». Nel corso degli anni, quando diverrà un uomo di successo, farà quanto in suo potere per aiutare vecchi amici finiti male, come nel 2006 quando «un amico di infanzia era appena uscito di prigione, e mi sono attivato per trovargli un lavoro, poi l’ho invitato al Mondiale in Germania: la sua felicità era la mia felicità». Poco dopo sarebbe morto anche lui, vittima del fegato compromesso dal precedente abuso di droga.
Lo scioglimento dell’URSS aveva provocato il caos, e anche il professionista Shevchenko ne subì le conseguenze: allorché si diffuse la notizia del suo passaggio dalla Dynamo al Milan, fu messo sotto scorta dai servizi segreti perché questi avevano intercettato un piano per rapirlo da parte di malavitosi che pensavano valesse una fortuna di riscatto.
I maestri, la voglia di imparare, la riconoscenza
Fondamentali, nel suo percorso, i genitori ed alcuni allenatori: «lo sport e i miei genitori mi hanno salvato, o almeno mi hanno indicato la via: io sono stato bravo a cogliere l’opportunità”». Il padre era un gran lavoratore, la madre un’impiegata in un asilo, due persone buone e abituate al sacrificio, che assecondarono la passione sportiva del figlio nonostante condizioni economiche non facili e prospettive lavorative differenti e meno incerte rispetto al pallone. Una volta, a 13 anni, aveva saltato un allenamento per andare a divertirsi con gli amici; tornato a casa, la madre gli disse che aveva telefonato il suo allenatore. «Tremavo, sentii di aver tradito la fiducia di mia madre”». Ma poi lei ammise, sorridendo, che si trattava di uno scherzo. «Non so come ma aveva capito tutto: il mio senso di colpa fu grande, e mi ripromisi che non avrei più saltato un solo allenamento». Un’altra volta fu rinchiuso in casa dai genitori per non aver fatto il suo dovere a scuola, ma lui scappò da una finestra per andare a giocare a hockey, altra grande passione. Scoperto dal padre, temette il peggio: «ero pronto a tutto, tranne a ciò che è realmente accaduto: mi ha perdonato. Aveva capito che, di fronte allo sport, proprio non potevo resistere. La mia era una forza interiore non un capriccio, c’erano voglia e impegno, e questo gli è bastato». A inizio carriera, i primi quattro stipendi li mise da parte per regalare ai genitori un televisore e un videoregistratore Vhs, «per dire grazie a chi aveva creduto in me».
Tornando un po’ indietro nel tempo, al rientro dai campi d’emergenza, Andriy viene ricontattato dall’allenatore delle giovanili della Dinamo Kyiv, Oleksandr Shpakov; se non l’avesse fatto la sua carriera non sarebbe iniziata: «il calcio mi ha scelto, mi ha preso per mano, mi ha cambiato e mi ha educato». Shpakov insisteva sulla disciplina: «ricordati che nella vita ti servirà» furono tra le sue prime parole al futuro campione; «può sembrare incredibile però quel discorso mi ha cambiato per sempre. Mi capitava di risentirne l’eco un attimo prima di sbagliare, e frenavo un centimetro prima del baratro». Shpakov «non puntava solo sui risultati sportivi: contava l’educazione, il rispetto per gli altri. E controllava i nostri voti, se non gli piacevano ci penalizzava. Grazie a lui ho capito il valore del sacrificio e la bellezza dell’umiltà». Per tutta la carriera Schevchenko non si limitò ad effettuare gli allenamenti previsti ma, ogni giorno, da solo, si esercitava: «neve, pioggia, temperature ampiamente sotto lo zero: poteva venire giù il mondo, ma correvo». Riconosceva chi giocava meglio di lui e anche da questi imparava: ancora alla Dynamo, nel 1994 si trovò di fronte Paolo Maldini e si chiese «e questo come lo supero? Non riuscivo a stoppare la palla perché lui mi si incollava addosso, faceva scivolate, mi attaccava. Ma ogni picconata alle mie sicurezze si trasformava in una motivazione per migliorare».
La prima esperienza con i professionisti fu un ritiro con la Dynamo nel 1993: «mi hanno invitato, ho chiesto permesso, sono entrato; parlavo poco e osservavo molto». L’anno dopo l’esordio in prima squadra, a 18 anni. Decisivo un altro maestro, il grande Valerij Lobanovskij, che tutti chiamavano Colonnello: era un predicatore del sacrificio e della disciplina, i suoi allenamenti assomigliavano a prove di resistenza; c’erano giocatori affermati che piangevano ai suoi piedi pregandolo di terminare l’allenamento, e la sua risposta era sempre no. Ripeteva che senza allenamento non ci sarebbe stato un domani felice. Sosteneva inoltre che «bisognava pensare anche agli altri e non solo a sé stessi». Sintomatico un episodio che vide Shevchenko discutere con il compagno Rebrov: «Oggi, Andriy, se ci fossimo passati la palla, avremmo potuto vincere», «Hai ragione, Serhij», «Andriy, non dobbiamo essere egoisti, scusami», «Scusami tu». Lobanovskij «fu il primo ad utilizzare un computer per analizzare le partite calcolando il movimento di ogni giocatore; io prendevo ordini, faticavo, crescevo, miglioravo: mi ha fortificato la testa, mi ha tolto il vizio del fumo». Quando nel 2003 vincerà la Champions League con il Milan, Andriy chiederà a Galliani di portare il trofeo in Ucraina, e a Kyiv la collocò accanto alla statua del Colonnello (morto nel 2002) «per dire grazie a colui che mi aveva cambiato la vita, non solo sportiva».
Una carriera al top, senza arroganza
Dal 1994 al 1999 con la Dynamo Kyiv Shevchenko segnò 106 gol, vinse 5 campionati ucraini consecutivi e 3 Coppe di Ucraina e più volte risultò capocannoniere. A 21 anni, in Champions League sempre con la Dynamo, segna la sua storica tripletta contro il Barcellona nientemeno che al Camp Nou; qui viene notato dal Milan che inizia a seguirlo tramite un collaboratore della società, Rezo Chokhonelidze, che diventerà poi amico di Andriy.
Il suo primo approccio alla squadra meneghina fu con i preparatori atletici, cui recapitò un biglietto di Lobanovskij accompagnato dalla sua prima, stentata, frase in italiano: «mi ha detto il Colonnello che devo lavorare tanto». Complici la serietà, l’umiltà e una connaturata timidezza, al Milan dei campioni viene accolto benissimo e si creano da subito legami al di là della professione. Massimo Ambrosini (centrocampista di quel Milan e suo compagno di stanza nei ritiri) imparava l’ucraino cercando di allenare contemporaneamente l’italiano di Andriy, Billy Costacurta (storico difensore rossonero) gli faceva da autista, Demetrio Albertini (allora centrocampista dei milanesi) gli insegnò le basi della cucina italiana.
Il presidente Silvio Berlusconi lo trattava come un figlio: fece di tutto per aiutare il padre gravemente ammalato di cuore, salvandogli la vita, e divenne il padrino del suo primo figlio. Gli chiedeva persino dei consigli: al momento di decidere se acquistare o meno Rui Costa al costo di ben 80 miliardi di lire, il Cavaliere era presidente del consiglio e temeva risultasse impopolare spendere tanto per un giocatore; telefonò ad Andriy chiedendogli un parere, che fu decisamente positivo. Il Milan acquistò Rui Costa. Indimenticabile fu la stagione 2002/2003, quella della Champions League vinta contro la Juventus; allenatore era quell’Ancelotti che in precedenza era stato coach della squadra torinese, e che era stato definito l’eterno secondo mentre molti tifosi bianconeri gli cantavano «un maiale non può allenare». La finale fu decisa ai rigori; l’allenatore propose a Sheva di tirare per primo, lui coraggiosamente disse che avrebbe tirato l’ultimo: risultò il penalty decisivo in favore dei rossoneri.
Anche con Ancelotti il rapporto fu intenso, sebbene vi furono incomprensioni, poi chiarite, per una gestione non felicissima da parte di Sheva di un grave infortunio: l’allenatore era convinto che il calciatore tardasse ad allenarsi per eccessivo timore, mentre i problemi fisici erano reali. In quei 7 anni al Milan segnò 208 reti, risultando il secondo marcatore rossonero di sempre e più volte capocannoniere tra Italia ed Europa, vinse una Champions League, una Coppa Italia, una Supercoppa Uefa, uno scudetto, una Supercoppa italiana. Nel 2004 gli fu assegnato il Pallone d’oro, massimo riconoscimento internazionale per i calciatori, premio che poi lui portò vicino alla statua di Lobanovskij come aveva fatto con la coppa della Champions.
Singolare la sua correttezza, tratto costante in carriera. Nel 2005, nel tunnel prima di entrare in campo, un difensore avversario cerca di provocarlo e di intimidirlo, dicendo cose offensive su un suo grave infortunio; «non sapeva che io, di tipi come lui, ne avevo conosciuti tanti durante la mia adolescenza, lui era un angioletto in confronto a loro; non avevo paura, lo guardavo e ridevo, ma non per prenderlo in giro». Il 25 maggio 2005 sbaglia il rigore decisivo che fa perdere al Milan la finale di Champions League contro il Liverpool, dopo che il primo tempo era finito 3-0 in favore dei rossoneri: dopo mesi di notti insonni, riconobbe che «il Liverpool aveva dato tutto, aveva difeso con il cuore», meritando la vittoria.
Nel 2003 viene contattato da Roman Abramovich, proprietario del Chelsea, che gli chiese se fosse interessato a giocare nella sua squadra. Sheva rifiutò, si sentiva legato troppo al Milan, ma da lì nacque un’amicizia che durò nel tempo, e che lo portò dopo tre anni ad approdare a Londra. Vi furono incertezze nella sua comunicazione pubblica dell’addio ai rossoneri: tutti si convinsero che tale scelta dipendesse dalla famiglia, mentre solo più tardi confessò che si trattava di motivi professionali di un calciatore ormai trentenne. L’ultima partita a San Siro la visse da infortunato, in curva con i tifosi: «tutto lo stadio ha iniziato a intonare cori per me: Sheva resta con noi. Piangevo, piangevano tutti».
Al Chelsea le cose non andarono bene, complici alcuni infortuni e lunghi tempi di recupero, che ne condizionarono pesantemente il rendimento; problemi che divennero cronici: «lavoravo al massimo e i risultati erano minimi». Il Milan si ripresentò, proponendogli di aiutarlo, e così nel 2008 ritornò, in prestito, a Milano. Purtroppo i problemi fisici persistevano, qualche volta giocava, molte altre no. Tornò poco dopo al Chelsea e successivamente, con l’annata sportiva 2009/2010, tornò alle origini trasferendosi alla Dynamo Kyiv; un contesto calcistico meno asfissiante di quello italiano e inglese gli consentì di gestire meglio i perduranti guai fisici e di giocare con maggior continuità, pur senza raggiungere i livelli di qualche anno prima. Qui subì la sua unica espulsione in carriera, per somma di ammonizioni; in realtà la seconda ammonizione scattò perché segnò un gol a gioco fermo, ma tirò in porta in quanto, a causa del rumore del tifo nello stadio, non aveva sentito il fischio dell’arbitro che fermava il gioco.
Il ritiro da calciatore avvenne alla fine del 2012. È stato commissario tecnico della nazionale di calcio ucraina dal 2016 al 2021, quando ha guidato i suoi fino ai quarti di finale degli Europei, traguardo raggiunto dall’Ucraina per la prima volta nella storia del torneo.
La Patria, la famiglia
Se intenso è stato il suo rapporto con i club (non a caso pochi), del tutto particolare è stato quello con la nazionale ucraina, vissuto come espressione dell’amore verso la propria patria. Con tenerezza così si esprime nei confronti della nascente nazione indipendente, nel 1991: «della famiglia aveva iniziato a far parte anche un’altra sorella, più giovane e speciale, bisognosa di cure e di amore. La figlia di tutti, un miracolo atteso. Una pargoletta che donava speranza. Si chiamava Ucraina». Dopo il ritiro si candidò anche alle elezioni politiche nazionali, ma il partito cui aderì non raggiunse i numeri per sbarcare in Parlamento. Appena segnato il gol decisivo nella finale di Champions nel 2003, dopo aver abbracciato i compagni corse a cercare una bandiera dell’Ucraina (non del Milan), tenendola in mano durante il giro di campo trionfale.
Così ricorda una delle migliori performance della Nazionale, agli Europei del 2012, la vittoria contro la Svezia per 2 a 1, in cui segnò entrambi i gol: «noi sul campo eravamo l’Ucraina, loro in tribuna erano l’Ucraina. Insieme abbiamo vinto da Ucraina. Un’emozione travolgente, un orgoglio debordante. Una delle notti più belle della mia vita».
In nazionale era il capitano, ed era solito organizzare tavolate con i compagni per bere un bicchiere di vino: «era un’abitudine per cementare il gruppo, quando il peso viene frazionato è più facile sopportarlo».
Fortissimo il legame con la famiglia. Nel 2001 conobbe la futura (e attuale) moglie, in occasione di una sfilata a sfondo benefico organizzata da Armani; mentre si esibiva Russell Crowe con la sua band musicale, incrociò lo sguardo della bellissima Kristen, modella statunitense. Vincendo la sua connaturata timidezza, si fece avanti. Dopo pochi mesi si fidanzarono. Nel 2004 i due si trovavano in vacanza negli Usa; durante una partita di golf con il padre di lei, alla buca 14 i giocatori si fermarono, e Andriy e Kristen si sposarono, lì, sul green. Poi lui e il suocero terminarono la partita. «Non avevamo organizzato nulla: abbiamo sfruttato quei giorni per parlare, costruire la nostra famiglia e pianificare la vita insieme; l’amore è arrivare a dirsi sì, è il percorso fatto insieme, è la strada che ancora resta da fare». La coppia ha quattro figli.
Forza vs gentilezza?
A chi gli chiede se in carriera ha avuto fortuna, così risponde: «la fortuna nel mio viaggio ha avuto un peso pari a zero. Ho sognato, ho lavorato, ho ascoltato Lobanovskij, ho faticato, ma non ho avuto fortuna, mai. In quella devono confidare coloro che non si preparano in maniera adeguata». Ciononostante, ripercorrendo Forza gentile si coglie che quello di Shevchenko non sia stato un percorso perfetto: la sua carriera ha vissuto di alti e bassi, ma ogni occasione è stato stimolo di apprendimento. Il giocatore e l’uomo hanno avuto debolezze e commesso degli errori: nel libro vengono ammesse le une e gli altri. Tutto ciò contribuisce ad illuminare le due polarità presenti nel titolo del volume, e il fatto che esse possano convivere.
Così ebbe a dire l’amico Giorgio Armani: «ho scoperto un uomo che aveva molto sofferto, consapevole e umile; di lui colpisce il misto di gentilezza e forza». Una forza connaturata, donata, ma anche testardamente coltivata, oltre che educata da “maestri” verso cui costanti sono stati l’ascolto e la riconoscenza; pur essendo cresciuto in un contesto duro e violento, Andriy incontrò persone buone, che “allevarono” l’uomo e il calciatore, dando prova che anche la bontà può essere vincente. Al di là del celodurismo imperante altre strade sono dunque possibili, che non siano l’arrendevolezza ma nemmeno l’arroganza: sempre con Armani, in Shevchenko «la forza si fa delicatezza, e la delicatezza diventa forza».
Paolo Signorelli