Tra le questioni che papa Francesco ha sollevato e che hanno creato particolare tensione dentro e fuori la Chiesa, sicuramente va annoverata quella dell’attenzione ai poveri. Accusato di “comunismo” da parte di circoli cattolici fortemente collocati a destra, Bergoglio ha spaventato le sinistre mostrando loro l’incapacità di realizzare e vivere l’ideale che pur propugnano. Con espressioni semplici e comprensibili a tutti (ma tutt’altro che intellettualmente sprovvedute) ha smascherato sia chi i poveri non li ha “visti”, sia chi li ha ridotti ad un’astrazione ideologica. Dirimente il suo intervento in piazza san Pietro il 18 maggio 2013 in un incontro con i movimenti laicali cattolici: «quando io andavo a confessare nella diocesi precedente, venivano alcuni e sempre facevo questa domanda (…)“E quando lei dà l’elemosina, tocca la mano di quello al quale dà l’elemosina, o gli getta la moneta?”. Questo è il problema: la carne di Cristo, toccare la carne di Cristo, prendere su di noi questo dolore per i poveri». Evidente segno che la questione non è una scelta pauperistica, ovvero costruire una sorta di sociologia della povertà entro cui tradurre il messaggio del Vangelo, quanto piuttosto il grande tema, centrale per il Cristianesimo, della Misericordia. Un tema cresciuto in maniera intensa, come autocoscienza all’interno della Chiesa, grazie all’insistenza del papato di Giovanni Paolo II e dei suoi due successori. Proprio questa nuova autocoscienza è il cuore di quella proposta di costruzione di una nuova civiltà, che non a caso sempre Giovanni Paolo II ha definito “della verità e dell’amore” (Rimini, 1982).
Il papa sta sollevando una questione decisiva, tale da riguardare il futuro di ogni civiltà, rispetto alla quale il primo problema è stato nel passato ed è, tuttora, di tipo conoscitivo. Alberto Methol Ferrè, il filosofo amato da Bergoglio, in un pregevole libro-intervista redatto da Alver Metalli (“Il papa e il filosofo”, ed. Cantagalli, 2014) , delinea la questione con chiarezza.
Lungi dall’essere un problema di orientamento pratico, qui si tratta di una crescita di autocoscienza, a cui la chiesa e l’umanità intera sono chiamate.
Methol Ferrè lo afferma con chiarezza nel suo testo, laddove, pur criticando la Teologia della Liberazione, mette in luce la necessità di ereditarne l’impeto verso la giustizia, sostenendo che ad un certo punto la chiesa i poveri non li ha più visti (“Il papa e il filosofo”, p. 114).
Ma perché è così importante il vederli?
Vi sono evidenti ragioni di sviluppo storico e di carattere sociologico. Da una parte è la stessa realtà che ci rende sempre più evidente la presenza di masse di indigenti. Fenomeni, quale quello delle migrazioni, ci impediscono di rimanere nel comodo guscio delle nostre case e di ignorarli. Arrivano. Sono milioni. Sono destinati alla morte. “il Mediterraneo è diventato il più grande cimitero d’Europa”, ha recentemente affermato Bergoglio. Ignorare questa realtà è oggi impossibile, se non per esplicita scelta, ed ogni azione politica non può non tenere conto di questo immane dramma. Né più o meno brutali respingimenti, né un’accoglienza falsa e ipocrita, poiché priva di reali strumenti di integrazione, possono essere annoverati come risposta adeguata. Occorre un vero cambio di passo, anche e soprattutto della politica.
D’altro canto i poveri sono la maggioranza dell’umanità e il papa, capo di una istituzione che si definisce “Cattolica”, che significa “universale”, non può che avvertire l’urgenza di essere il papa di tutti. Dunque il papa non può dimenticare quella che è la maggior parte del suo popolo, pena un’ipocrisia che non lo renderebbe credibile. In tal senso l’esperienza da cui proviene Bergoglio, la chiesa latino americana, è qui decisiva. Strappare a linee ideologiche, quali furono quelle della Teologia della Liberazione, il tema della povertà e riappropriarsene è fondamentale. Ricomprendere la giusta istanza di quelle passioni politiche, che pure in forme diverse si sono sviluppate anche in Europa, purificandole dalle ambiguità in cui si sono realizzate, è un’affascinante ed inderogabile compito.
Lungi dall’essere solidarismo a buon mercato, è la costruzione di una nuova comunità umana di cui chi ha fede – il papa ne è convinto – è già portatore. Sembra proprio questo il monito di Bergoglio al suo popolo.
D’altro canto occorre non dimenticare tutte le forme di povertà, di cui l’indigenza è quella più oggettivamente visibile ed emarginata, ma non quella più grave. Anche da questo punto di vista il richiamo di Bergoglio, fin dai suoi primi interventi come papa, perché si realizzi una “Chiesa in uscita”, capace di giungere a quelle “periferie esistenziali” che caratterizzano la nostra umanità, è chiaro ed evidente nel suo significato originale rispetto al pauperismo politico e teologico degli anni ’70.
Emerge dunque una questione ancor più radicale degli stessi flussi storici di cui parlavamo. Una questione che riguarda l’ontologia stessa dell’essere cristiano.
Proprio nell’intervista con Methol Ferrè prima citata, emerge un circolo virtuoso che stringe assieme i termini “cultura, “povertà”, “popolo” e “avvenimento”.
A parere del filosofo latino americano, chi ha fede, quand’anche fosse uomo semplice e privo di strumenti intellettuali (dunque “povero”), per lo stesso fatto di avere fede, possiede un criterio ermeneutico per comprendere la vita, il mondo e la storia, di enorme portata. L’uomo di fede dotato di cultura (centrale è la riflessione sul ruolo dell’Università in tal senso- si veda “Il papa e il filosofo”, p. 148), d’altra parte, non può dimenticare questa originale sorgente della sua cultura. Tale origine si identifica con il punto sorgivo del Cristianesimo stesso. Il Cristianesimo, difatti non nasce da una dottrina, né si può ricondurre ad un’etica (si veda la parte iniziale dell’enciclica “Deus caritas est” di Benedetto XVI), ma ad un avvenimento (nella storia, un Dio che si è reso incontrabile dall’uomo, facendosi egli stesso uomo). Un’origine che si rivela come una ricchezza inestimabile la quale, tuttavia, per essere riconosciuta e resa feconda, necessita di una perenne disposizione a mettere in discussione i propri schemi predefiniti, così da “lasciar essere” (ovvero riconoscere) l’evento originario nel suo carattere straordinario. È dunque necessaria una “povertà” come disposizione naturale.
Si tratta di un tema tutt’altro che riducibile al solo orizzonte cristiano. Se la categoria dell’ “avvenimento” è effettivamente discriminante (o è accaduto, o non è accaduto; o lo si riconosce, o non lo si riconosce) , tuttavia la stessa filosofia, in alcuni sviluppi tra i più geniali del Novecento (si pensi ad Heidegger o Wittgenstein), rileva l’impotenza degli schemi intellettivi a spiegare il reale nel suo significato (il fatto che le cose esistano, la ragione dell’esserci dell’ente), e dunque rimanda alla necessità di “mettersi in ascolto dell’essere” (Heidegger).
Proprio per questo, Methol Ferrè può affermare che la “cultura umana ha nella cultura cristiana il suo apogeo”. Se indubbiamente il riconoscimento di Cristo come uomo-Dio è questione di fede, tuttavia la dinamica che questo riconoscimento implica (ovvero che non la propria elaborazione intellettuale possa rivelare la verità ma che quest’ultima si riveli all’uomo) è senza dubbio quanto avverte come profonda esigenza lo stesso pensiero contemporaneo.
Siamo agli antipodi dell’Illuminismo del ‘700, in vista della costruzione di un nuovo Illuminismo. Qui si tratta non di élite ristrette ed illuminate dall’erudizione di cui possono concedersi il lusso, ma del popolo stesso che acquisisce un senso delle cose e della realtà grazie alla sua prossimità, per la vita di fede che lo permea, al “centro del cosmo e della storia”, ovvero Cristo (Giovanni Paolo II). Un popolo che vive l’avvenimento cristiano, pertanto, è generatore ipso facto di cultura. Una cultura in dialogo con le altre e capace di offrire il suo apporto originale alla vita dell’intera società
Appare chiaro, dunque, il valore dell’attenzione alla povertà su cui papa Francesco insiste. La povertà economica ed esistenziale che l’uomo vive, come dimensione così diffusa e non adeguatamente considerata, svela le dimensioni autentiche dell’uomo, che necessita di prendere coscienza della sua povertà ontologica (non costruisce da sé il proprio destino) e che dunque si trova di fronte al mondo e alla vita come “anfora vuota alla fonte”. Ovvero in una posizione autenticamente religiosa (e dunque non clericale, ma pienamente “laica”, densa di domanda e ricerca razionale), capace di non trincerarsi dietro la ricchezza dei propri schemi intellettuali, inesorabilmente spazzati via dall’avvicendarsi degli eventi. Una posizione umana, questa, capace di rinascita, di rimettersi in moto.
In tempi di rivolgimenti così gravi, in cui crisi economiche, crisi pandemiche, movimenti migratori epocali si avvicendano con impressionante velocità, la prima e forse unica questione da raccogliere è proprio questa: sapremo “vedere” e comprendere? In questa opzione di fondo, non vedere che la maggior parte dell’umanità vive una situazione di grande indigenza (non “vedere” i poveri), non vedere e riconoscere tutte le nostre forme di povertà (abbandonare le periferie esistenziali a se stesse), segna il passo di una sicura sconfitta.
Al contrario rimettere a tema con autenticità la questione, è la prima azione culturale capace di vincere quella spontanea, e al contempo innaturale, chiusura nella “bolla” di cui l’uomo si è reso capace nei secoli e di cui oggi rischia di morire soffocato.
L’uomo, libero da sé e dai propri schemi, si riscopre generativo, ovvero capace di vedere quegli avvenimenti che nella sua storia quotidiana aprono prospettive di speranza.