Nella guerra in corso in Ucraina, è presente un aspetto peculiare e decisamente rilevante, che aggiunge elementi di complessità ad una situazione già così drammatica: si tratta delle implicazioni religiose del conflitto. «La dimensione religiosa della guerra è fortissima (…). Il modo in cui le Chiese hanno ignorato o assorbito la divisione, la brutalità, l’egolatria è parte della guerra. Ha inquinato i cuori, che non sono meno pericolosi dei cannoni e sono più difficili da disarmare» (Alberto Melloni, La Repubblica 25/02/2022 e Il Giorno 03/04/2022). Ortodossi contro ortodossi, Putin che invoca uno scopo “messianico” alla sua cosiddetta operazione militare, il patriarca di Mosca Kirill che benedice le forze armate russe… Non abbiamo qui la pretesa di spiegare o ricostruire storicamente tutto il quadro di tali complesse implicazioni; in queste righe ci limiteremo a dar conto di alcuni contributi che ci sono sembrati particolarmente significativi, utili e costruttivi per tentare, come uomini, come cristiani, di stare di fronte alla tragedia in atto, in particolare nei suoi risvolti religiosi.
La nostalgia del “sacro impero”
Così ha affermato il patriarca ortodosso Kirill nel suo celebre discorso del 6 marzo: «ciò che sta accadendo oggi nell’ambito delle relazioni internazionali non ha solo un significato politico. Stiamo parlando di qualcosa di diverso e molto più importante della politica. Stiamo parlando della salvezza umana, di dove finirà l’umanità, da quale parte vogliamo stare, dalla parte di Dio Salvatore, che viene nel mondo come Giudice e Creatore, a destra o a sinistra (…) Tutto ciò indica che siamo entrati in una lotta (contro il potere mondiale rappresentato dall’Occidente, ndr) che non ha un senso fisico, ma un significato metafisico». Kirill, a marzo, ha affidato al generale della guardia nazionale russa una icona della vergine madre Maria perché accompagnasse le truppe russe nella guerra contro gli ucraini, offrendo così la giustificazione religiosa alla Russia nella guerra in corso.
Come si è arrivati a tutto ciò? Lo ha ben sintetizzato Massimo Borghesi sul suo blog e su Il Sussidiario del 26 marzo (“La guerra politico-religiosa e la consacrazione della Russia e dell’Ucraina a Maria”): già nel 1996 Samuel Huntington sosteneva che la guerra fredda sarebbe stata sostituita da nuovi conflitti fondati sulle identità religiose e culturali; con l’abbattimento delle Torri gemelle si è poi inaugurata l’era della teopolitica, dello scontro di civiltà, di nuovi scenari segnati non più esclusivamente da interessi economici. Anche in Ucraina, prima della guerra, era già in atto un conflitto tra il nazionalismo politico-religioso filoccidentale e il mito della grande Russia ortodossa sognato da Putin. «Il modello teodosiano-costantinopolitano si è affermato come tendenza prevalente (benché non esclusiva, ndr) nella Chiesa ortodossa russa dopo la caduta del comunismo: solo l’antica alleanza Chiesa-Stato-nazione, si pensa, può restituire prestigio alla religione e arrestare il processo di secolarizzazione proveniente da Ovest», oltre che a fornire il cemento ideale per un rinnovato nazionalismo.
Come ogni teologia politica, continua Borghesi, «anche questa richiede un nemico: l’occidente, terra di edonismo-relativismo-corruzione morale». La mistica etno-territoriale-religiosa, al centro dell’idea della “grande Russia” zarista, è il collante ideologico che Kirill ha offerto a Putin per colmare il vuoto ideale seguito al crollo del comunismo. Da qui la “santa alleanza” tra Putin e Kirill, le due facce della medesima visione imperialista, di una rinnovata “guerra santa”. Kirill Hovorun, ex collaboratore di Kirill, arriva a dire che «la Russia non era altro che un grosso distributore di gas, è stata la Chiesa che ha offerto a Putin una visione nuova per il progetto imperiale. Senza la Chiesa, senza l’ideologia del Russkij mir, questa guerra forse non ci sarebbe stata» (La Nuova Europa, 28 marzo).
A ciò si aggiunga il fatto che, nel 2018, la chiesa ortodossa di Kiev si sia staccata dal patriarcato di Mosca aderendo al patriarcato ecumenico di Costantinopoli; un affronto per l’ortodossia russa: «i vescovi tradizionalisti russi hanno patito questo abbandono, e per questo la guerra appare anche come un tentativo di riportare nell’ovile di Mosca gli ortodossi ucraini; Putin stesso fa spesso ricorso alla retorica russa di Mosca come terza Roma» (Massimo Introvigne, Il Mattino, 03/03/2022). Una ulteriore divisione che, certamente, non aiuta. Una divisione, in parte, anche interna alla stessa ortodossia ucraina, se è vero che l’appello del metropolita di Kiev, Onufrij, ad «unirsi nell’amore a Dio e alla nostra patria» finora è stato accolto freddamente anche dalla chiesa autocefala ucraina.
L’obbligo morale di schierarsi
E in campo cattolico? Colpisce che una parte degli intellettuali cattolici, invece che porsi il problema di come arrivare alla pace, abbia a cuore soprattutto il (legittimo peraltro) diritto dell’Ucraina a difendersi, ed accusi papa Francesco di “neutralismo”: Bergoglio, infatti, pur condannando ripetutamente la guerra, viene accusato di non aver mai citato né criticato apertamente Putin per la sua iniziativa bellica (New Catholic Reporter) e rinnoverebbe così i presunti silenzi di Pio XII sugli ebrei durante la seconda guerra mondiale (New York Times). In Italia, illuminanti alcune dichiarazioni di Pietro De Marco sul blog di Sandro Magister: «come può papa Francesco mostrare tanta indifferenza per chi muore per la sua patria? Dobbiamo ancora coltivare l’idealità dell’imbelle? È questo che deve fare la Chiesa cattolica? Papa Francesco non tiene conto del dovere, per la Chiesa, di un giudizio pubblico secondo giustizia» (1° aprile). Non ci pare tanto dissimile questa posizione, aggiungiamo per inciso, da quel bisogno di avere un “nemico” coltivato da una parte dell’ortodossia russa nella sua visione teopolitica… Qualche giorno prima De Marco aveva scritto: «i pacifici non possono nascondersi dietro il velo di una carità che prescinde da tutto; o siamo tentati di assumere la preghiera come escamotage per non prendere posizione su questa guerra?» (9 marzo).
A queste parole ha risposto Massimo Borghesi, ritenendo emblematica questa critica portata avanti oggi dall’occidentalismo cattolico, una posizione trasversale alla destra e alla sinistra. «L’entusiasmo per la pace ha ceduto il posto all’entusiasmo per la guerra, e la preoccupazione degli intellettuali cattolici di giustificare la guerra è, da questo punto di vista, significativa. La guerra tra Russia e Ucraina è un fatto tragico di cui Putin porta l’enorme responsabilità. L’occidente non ha però il compito di alimentare il fuoco, ma di sedarlo» (Vita, 4 aprile).
Significativo in questo senso quanto dichiarato da Papa Francesco, nel suo discorso a Malta del 2 aprile: «più di sessant’anni fa, a un mondo minacciato dalla distruzione, dove a dettare legge erano le contrapposizioni ideologiche e la ferrea logica degli schieramenti, si levò una voce controcorrente, che all’esaltazione della propria parte oppose un sussulto profetico in nome della fraternità universale». Il pontefice si riferisce a Giorgio La Pira che nel 1960, al Congresso mediterraneo della cultura, disse: «La congiuntura storica che viviamo, lo scontro di interessi e di ideologie che scuotono l’umanità in preda a un incredibile infantilismo, restituiscono al Mediterraneo una responsabilità capitale: definire di nuovo le norme di una Misura dove l’uomo lasciato al delirio e alla smisuratezza possa riconoscersi». Parole che Francesco, a Malta, ha così commentato: «Quell’infantilismo, purtroppo, non è sparito. Riemerge nelle seduzioni dell’autocrazia, nei nuovi imperialismi, nell’aggressività diffusa, nell’incapacità di gettare ponti. Oggi è tanto difficile pensare con la logica della pace. Ci siamo abituati a pensare con la logica della guerra. Sì, la guerra si è preparata da tempo. Ed è triste vedere come l’entusiasmo per la pace, sorto dopo la Seconda guerra mondiale, si sia negli ultimi decenni affievolito». Insomma, dovremmo tutti avere come obiettivo la pace, e concepire l’uso della forza esclusivamente come un mezzo commisurato a questo fine.
Ricominciare da Uno
Nel cuore dell’Europa, per dirla ancora con Borghesi, «due nazioni cristiane, sorelle nella fede ortodossa, si sbranano, usando i simboli della fede gli uni contro gli altri». Di fronte a questo dramma nel dramma è difficile, come cristiani, non farsi prendere dallo scoramento; così come molto facile sarebbe, a uno sguardo superficiale e cinico, sottolineare l’incoerenza delle posizioni in campo con gli insegnamenti evangelici ricevuti.
Ancora una volta il Papa viene in nostro aiuto: di fronte alla guerra, Bergoglio non segue le logiche dominanti, e pur non stancandosi di condannare il conflitto, non ha preso posizione, non si è posto all’interno della dialettica Oriente-Occidente, amico-nemico, buono-cattivo; ha adottato un altro punto di vista, consacrando sia la Russia che l’Ucraina al cuore immacolato di Maria, affidando così tutti i protagonisti al mistero di Dio, al Dio della pace, e testimoniando che russi e ucraini sono tutti figli della stessa Madre, e dunque fratelli. E questo, a nostro avviso, costituisce un forte richiamo anche a chi sta vivendo il conflitto con la lente della propria appartenenza cristiana, ortodossa o cattolica che sia.
Francesco sta indicando un’altra strada, secondo una prospettiva più radicale e umanamente vera, ponendosi e ponendoci una domanda: da dove ricominciare? «La chiesa non deve usare la lingua della politica, ma il linguaggio di Gesù» (dalla Nota vaticana dopo il video-colloquio tra Francesco e Kirill del 16 marzo); «Francesco riporta il cristianesimo a Cristo» (Antonio Spadaro, La Stampa, 20 aprile). Crediamo che sia questo ciò di cui abbiamo più bisogno, come cristiani, di fronte alla tragedia in atto e di fronte alle tristi divisioni tra fratelli nella fede; ma anche di fronte, in fondo, a tutte le battaglie e divisioni della storia e del nostro quotidiano (se è vero che la guerra può essere una dimensione dell’anima): non abbiamo bisogno solo delle pur necessarie analisi, non solo degli auspicabili sforzi di comprensione e mediazione, non solo dell’impegno morale di cui possiamo essere capaci, ma è Gesù stesso che ci è necessario, la sua stessa persona.
È una cosa scontata? È una cosa poco concreta? Ma non è, forse, proprio perché abbiamo dimenticato o dato per scontato il Fondamento, che poi facilmente arranchiamo in soluzioni parziali, insufficienti o insoddisfacenti? Non si tratta di condannare Kirill, «si tratta piuttosto della fede cristiana nel suo stesso fondamento; nel momento drammatico di questa guerra, è bene tornare a ciò che è per noi l’insegnamento evangelico. Riprendiamo semplicemente la preghiera di Cristo» (Georges Nivat, Parlons d’Orthodoxie, 4 aprile). Vale per noi “spettatori”, vale per gli attori in campo, per chi si appella alla fede in Gesù per giustificare la sua posizione, magari sedimentata da una lunga storia di dispute teologiche: abbiamo bisogno di Gesù per ripartire, di Lui presente, carnale, storico, del Cristo che si piega sulle vittime ma anche su chi ha più bisogno di perdono.
È una grazia da domandare, quantomeno un desiderio, una tensione da coltivare, come testimoniato da un’altra iniziativa di Francesco, in occasione della via crucis del Venerdì Santo al Colosseo, quando ha chiesto a due donne (un caso?), una ucraina e l’altra russa, di portare assieme la croce di Gesù.
Paolo Signorelli
Foto: Irina, ucraina, e Albina, russa, portano assieme la croce durante la Via Crucis al Colosseo (15/04/2022)