Politicamente e storicamente il tema della povertà è utilizzato ad arte per indirizzare il consenso di qualsiasi tornata elettorale.
La sinistra ne ha fatto il suo cavallo di battaglia, mentre la destra è sempre apparsa come distante da questo concetto.
In entrambi i casi nessuna forza politica ha mai guardato al problema per quello che veramente è: un tema che, volenti o no, ci tocca tutti.
La questione non è tanto farne un punto di forza politica o partitica, ma comprendere profondamente che nessuna azione politica può prescindere da una presa di coscienza vera e profonda dell’umano che è presente in ciascuno di noi.
Secondo la condizione attuale in cui tutti siamo immersi, l’uomo moderno è profondamente individualista, è tronfio, superbo, a volte anche apertamente violento, è un uomo che ha certezze assolute e la convinzione di bastare a se stesso e Dio, se c’è, non c’entra.
Dio non c’entra con l’uomo concreto, con i suoi interessi, i suoi problemi, con l’uomo che si ritiene sorgente del progetto e dell’energia concreta con cui realizzarlo. È una cultura che pian piano ha penetrato cuore e mente di tutto il popolo, diventando mentalità sociale, che nessuno, o quasi, mette oggi in discussione.
In questa cultura un Dio che pretende di intervenire nei destini di cui l’uomo si sente padrone non è tollerato, è per lo meno inutile.
Nella nostra civiltà che sente febbrilmente breve il tempo per realizzare le molte imprese a cui guarda, quel Dio non è funzionale. Quindi perché perdere tempo nel soffermarsi a considerare un tale Dio?
Un sacro che non c’entri con il campo concreto degli interessi quotidiani dell’uomo rende il rapporto con Dio concepibile solo come totalmente soggettivo.
E la realtà umana resta con i suoi problemi e i suoi interessi completamente alla mercé dei criteri dell’uomo, chiusi in questo modo dentro un orizzonte che rende impossibile qualsiasi novità nella sua vita, priva di uno sguardo aperto spalancato sulla realtà che comprende la totalità dei suoi fattori, mentre solo l’uomo dubbioso, colui che è in ricerca, è capace di vera domanda poiché non ha il diritto di sentirsi superiore a chicchessia.
La libertà, oggi intesa come abbandono di sé esclusivamente al proprio impeto di reazione, d’istinto, d’immagine, di opinione, è invece adesione ad Altro da sé, ad un Tu che compie, fa crescere, costruisce e realizza la nostra persona.
Cosa c’entra in tutto questo la povertà?
I poveri, così come comunemente li intendiamo, sono gli invisibili, un peso fatale per le istituzioni, un fardello per la società, ai quali al massimo, se le condizioni lo permettono, regaliamo un po’ di assistenza superflua, restando ben attenti a non farci sfiorare, a rimuovere ogni riflessione, ogni pensiero sulla loro esistenza, sulla loro capacità di resistere, sui problemi veri che devono affrontare. Non ci ricordiamo di loro, non li guardiamo negli occhi quando gli diamo l’elemosina, non ci è mai passata per la testa la possibilità di toccarli.
Di fatto preferiamo mettere una barriera tra noi e loro, quasi a voler escludere ogni possibilità di contaminazione, quasi a voler rimarcare la nostra diversità, per non essere confusi, non perdere la nostra identità, non mescolarci, non apparire insieme o peggio ancora dalla loro parte.
Noi come istituzioni e noi come persone.
Il Covid 19, però, ha ribaltato la nostra prospettiva, la nostra convinzione di essere i soli capaci di determinare il nostro destino, il nostro sguardo su di noi e sugli altri: ci ha messo drammaticamente di fronte alla nostra responsabilità, ha determinato il nostro limite, ci ha spogliato degli abiti “culturali”, dei ruoli che abbiamo sempre difeso con tanto vigore, ci ha resi tutti uguali di fronte al nostro destino, ci ha fatto sentire poveri spiritualmente e bisognosi, perché ci ha ricordato che nell’altro c’è una parte di noi e che da soli non siamo niente.
Riscoprire la nostra fragilità umana, il nostro essere vulnerabili e accomunati da una finitezza che abbiamo dovuto accettare, l’isolamento forzato che ci ha separato dagli altri ha risvegliato la nostra umanità, ci ha ricordato come il nostro io sia sempre legato a un tu e a un noi, in una relazione di appartenenza ad un tutto del quale siamo una parte distinta ma senza cui non possiamo esistere e del quale siamo tutti responsabili.
Ci ha fatto tendere la mano al più fragile, ha rotto le barriere e finalmente ci siamo guardati negli occhi. E abbiamo teso la mano.
Perché abbiamo riconosciuto in noi la stessa domanda di salvezza, lo stesso bisogno di aiuto, la stessa umana povertà.
Abbiamo compreso che il povero è ciascuno di noi, è ogni uomo che riconosce con umiltà di non bastare a se stesso.
In questo senso interpreto le parole di Papa Francesco, “Gesù non si conosce veramente se non si guarda al povero”: per essere certi bisogna essere poveri, perché la certezza vuol dire abbandono di sé, superamento di sé, vuol dire che io sono piccolo e la cosa vera e grande è un’altra. Questa è la povertà.
Il povero è colui che domanda, e la domanda richiede umiltà, quella che ci mette a nudo di fronte agli altri.
La domanda si fa con lo sguardo prima ancora che con la parola, e negli occhi di chi pone una domanda col cuore possiamo riconoscere la promessa mantenuta di Gesù, che si è sacrificato per noi non per abbandonarci, ma per estendere il suo amore a tutti quelli che lo cercano, che lo trovano, che lo seguono.
Ecco perché Gesù non si conosce veramente se non si guarda al povero: è un invito alla responsabilità come impegno diretto di chiunque si sente partecipe della stessa sorte.
Ecco perché è necessario che la politica torni a guardare con profonda umiltà a questa umanità: non saremo mai una comunità fino a quando non ci confonderemo tutti insieme e non avremo obiettivi e valori comuni, contando sulle risorse di ciascuno di noi, anche e forse prima di tutto quelle dei poveri.