C’è un stridio assordante tra le passioni che accaniscono le controversie nei media occidentali e ciò che succede alla maggioranza degli uomini. Non solo lontano, ma anche vicino a noi. Mentre televisioni, social e giornali erano pieni di veemente retorica sui diritti delle minoranze (chi pro chi contro), nelle campagne pugliesi un ragazzo di 27 anni è crollato dalla sua bicicletta, stroncato da ore di lavoro al sole rovente. Era arrivato dal Mali da pochi giorni per lavorare con il fratello nella raccolta dei pomodori a 6 euro l’ora.
Si dirà che i morti per il lavoro sono talmente tanti che non fanno più notizia. Come ormai non fanno più notizia le sciagure quotidiane che affliggono interi popoli. Magari qualche lacrima di coccodrillo quando hanno il cattivo gusto di morire a pochi chilometri dalle nostre spiagge.
Noi, uomini occidentali, ricchi eredi dell’Illuminismo e del colonialismo, ci sentiamo addosso l’onere e la colpa dei destini del mondo. Come seduti davanti a un grande schermo assistiamo a un film che sa di inganno, illudendoci che il panopticon mediatico che ci perseguita ogni minuto canti l’epica di una civiltà che, alla vigilia del suo Armageddon, si purifica nei suoi riti collettivi e nelle sue parole d’ordine dalle ingiustizie, dalle discriminazioni e dalle brutalità di cui sa essere capace.
Ma forse è venuto il momento di liberarci di questo peso e di guardare le cose dal punto di vista delle maggioranze. Quelli che chiamiamo “poveri”, con il metro ristretto del Pil, che compatiamo per le loro fatiche o che disprezziamo e vogliamo respingere, o che semplicemente non vogliamo vedere, sono ormai un Quarto Stato che preme sulla storia con la forza imponente dei propri corpi. Saranno loro a dettare l’agenda del nostro futuro e, lo vogliamo o meno, a salvarci dalla nostra povertà, che è ben peggiore della loro.
In questo numero di Presente riflessioni e testimonianze di un futuro che è già cominciato.