N.2 - L'Apocalisse è finita, ridateci una missione

Iraq, l’Armagheddon e il perdono

Si è compiuto in questi giorni il decimo anniversario della guerra in Siria, che in buona parte è il prolungamento della guerra iniziata in Iraq nel 2003. Quasi un ventennio di violenze e dolore come una spada conficcata nel fianco di un Medio Oriente, che dalla fine delle primo conflitto mondiale non trova una pace stabile e duratura.

Si è soliti attribuire la causa di queste devastazioni ai fiumi di petrolio che attraversano quelle nazioni, oppure alle rotte della droga, o alle irrisolte tensioni tra le religioni, o ancora al lascito nefasto del colonialismo europeo. Sono tutte ragioni vere, che spiegano l’instabilità con fattori regionali, che si possono ritrovare anche in altre aree disgraziate del pianeta. Ma con l’invasione americana dell’Iraq se n’è aggiunta una che ha fatto compiere un salto di qualità a quei conflitti, conferendo loro un valore epocale, come se in quelle terre semidesertiche fosse in gioco il destino del mondo. E per questo il viaggio di Papa Francesco in Iraq (5-8 marzo 2021) non è un gesto la cui portata si limita a medicare le ferite inferte alle piccole comunità cristiane locali o al rapporto con i musulmani, ma propone un’opzione alternativa sul destino di tutti.

“Oltre l’apocalisse. Ripartire da Baghdad” ha titolato la rivista Civiltà Cattolica un articolo del suo direttore, Antonio Spadaro, alla vigilia del viaggio di Papa Francesco e in queste parole si concentra il senso di quell’evento. Perché evocare l’apocalisse? Nell’articolo Spadaro vola rapido su questo tema, ricordando solo che «il peso del passato califfale di Baghdad si riverbera nell’oggi come snodo di imperialismi, epicentro di visioni apocalittiche che vogliono accelerare la fine dei tempi con la violenza».

L’immagine dell’apocalisse per quanto riguarda l’Iraq e la Siria non è una metafora ma il termine che i protagonisti di quei conflitti hanno utilizzato per spiegarli e attirare su di essi consenso e  l’attenzione del mondo.

Dobbiamo ripercorrere gli eventi a partire dall’invasione da parte delle bande del cosiddetto Stato Islamico del territorio che abbraccia il nord dell’Iraq e il nord est della Siria, da Mosul ad Aleppo, dove nel 2014 l’Isis proclamò il suo fantomatico Califfato. Perché proprio lì sventolò la bandiera nera?

Non si è prestato credito sufficiente alla spiegazione che ne hanno dato gli stessi autori. Compito che si è invece assunto William McCants, già direttore del progetto sulle relazioni tra Usa e mondo islamico della Brookings Institution, influente think tank americano, nel suo libro “The Isis Apocalypse. The History, Strategy, and Doomsday Vision of the Islamic State” (St.Martin’s Press, 2015), un libro documentatissimo, ricco di informazioni di prima mano, scritto proprio mentre l’Isis dilagava e sembrava tenere sotto scacco il mondo.

L’Isis si stacca da Al Qaida, muove da Baghdad verso nord, si insedia nella piana di Ninive e punta verso la Siria, per un motivo tutto interno alle dispute dottrinali del radicalismo islamico. Dopo dieci anni dall’invasione americana che aveva spazzato via il regime di Saddam Hussein, il rancore covato e diffuso nelle viscere della società irachena aveva fatto rivivere le profezie apocalittiche che hanno percorso la storia islamica, parallelamente a quelle ebraiche e cristiane. L’occupazione da parte dei “crociati” americani del cuore dell’antico Califfato, l’umiliazione della componente sunnita della popolazione irachena e altri segni indicavano l’avvicinarsi del Giorno del Giudizio. 

Nell’apocalittismo islamico il Giorno del Giudizio è descritto come una battaglia tra i fedeli e i crociati che si sarebbe dovuta svolgere proprio nella terra tra il nord dell’Iraq e il nord della Siria. Molte profezie indicano addirittura il villaggio di Dabiq, nei pressi di Aleppo, come l’epicentro dello scontro finale. Quello scontro sarebbe stato preceduto da un tempo di conflitti in cui un messia, in arabo Mahdi, avrebbe instaurato il Califfato e, issando la bandiera nera degli Hashemiti, avrebbe condotto i fedeli verso la vittoria finale.

Nel corso dei secoli molte insorgenze interne al mondo musulmano hanno arricchito quelle profezie e molti Mahdi sono comparsi. Anche il terrorismo moderno se ne è alimentato, ma non Bin Laden e la vecchia guardia di Al Qaida, per questo accusati di poco zelo, di non aver compreso i segni dei tempi, da Abu Ayyub al-Masri e poi Abu Bakr al Baghdadi dai quali nacque lo scisma dello Stato Islamico, una frangia composta di molti ex appartenenti all’apparato di Saddam Hussein, senza una struttura gerarchica, ma con diversi nuclei autocefali, capaci di organizzazione e di guerriglia, ma soprattutto con capi e quadri animati da una forte motivazione teologica e capaci di gestire molto efficacemente la propaganda.

Il richiamo della battaglia finale fu una vera calamita verso lo Stato Islamico per migliaia di giovani emigrati fuori dal mondo arabo, soprattutto in Europa, ma anche per manovalanza armata dalla Cecenia e dallo Xinjiang, e questo afflusso fu interpretato come uno dei segni a conferma dell’imminenza del Giorno del Giudizio. Insieme ad un altro fatto, terribile. Quando i miliziani dell’Isis dilagarono nella piana di Ninive, vi trovarono non solo radicate comunità cristiane, ma anche molte tribù di religione yazida, un credo antico, considerato dagli islamici politeista. Ai cristiani fu proposta l’alternativa tra convertirsi, fuggire o essere ammazzati. Gli yazidi invece furono subito massacrati e le loro donne prese come schiave sessuali. C’è un brano oscuro di un’antica profezia che affermerebbe che la schiavitù delle yazide sarebbe stata un segno dell’avvicinarsi del Giorno del Giudizio. Così il fanatismo dell’Isis autoavverò la profezia, considerandola come il segno più esplicito dell’apocalisse.

Papa Francesco ha confessato che la goccia che lo ha definitivamente convinto a vincere gli indugi e ad andare in Iraq è stata la lettura del libro “L’ultima ragazza” di Nadia Mourad, che racconta l’esperienza terrificante delle donne yazide, catturate dall’Isis.

Il resto è storia nota: le distruzioni, le decapitazioni, le stragi. Fino alla sconfitta nel 2017. Una sconfitta non definitiva, specialmente dopo l’uccisione da parte dei missili Usa del principale nemico sul campo dello Stato Islamico, il generale iraniano Qassem Soleimani, e perché per sua natura l’Isis è pluriforme e non è morto con i suoi leader provvisori. Inoltre una vittoria l’ha incassata: convocare il mondo a battaglia nelle terre delle antiche profezie, contagiandolo del suo fuoco apocalittico.

Un incendio i cui tizzoni erano stati accesi ben prima della nascita dell’Isis. Il nuovo millennio era cominciato all’insegna dello scontro finale già con gli attentati ceceni a Mosca tra il 12 e il 13 settembre 1999, macabro anticipo dell’attacco alle Torri Gemelle di New York, esattamente due anni dopo. Una dichiarazione di guerra che aveva fatto riesplodere un’ansia apocalittica mai definitivamente sopita anche in Occidente, specialmente in America.

La guerra contro l’”Asse del male” lanciata da George W. Bush in risposta all’attentato fu connotata da subito da una narrativa teologica da battaglia finale e non si trattò solo di storytelling. Il governo americano, dominato dai neo-conservatori e supportato dai teo-conservatori, fece di tutto per arruolare le confessioni religiose cristiane. In un recente articolo su Foreign Affairs, Victor Gaetan rivela che nel novembre 2002, quattro mesi prima del lancio dell’operazione “Iraqui Freedom”, il segretario di Stato Donald Rumsfeld e il suo vice Paul Wolfowitz convocarono al Pentagono alcuni leader religiosi per un summit top secret sulla guerra in Afghanistan. Durante l’incontro gli invitati scoprirono che in realtà si trattava di una comunicazione del piano di invasione dell’Iraq, allo scopo di ottenere il loro consenso alla guerra. Rumsfeld li rassicurò sul fatto che si sarebbe trattato di un’operazione fulminea e che le “bombe intelligenti” avrebbero ridotto al minimo le vittime civili, mentre la popolazione avrebbe accolto entusiasta i liberatori forieri di democrazia. All’incontro parteciparono tra gli altri il vescovo episcopaliano John Chane, che ha raccontato all’autore dell’articolo di essere uscito sconvolto, mentre il vescovo cattolico di Baltimora, William H. Keeler, tacque, e il leader evangelico Chuck Colson si mostrò addirittura entusiasta.

Mentre il mondo si crogiolava in un millenarismo à la carte in cui tutte le paure potevano essere consumate, da quella del riscaldamento globale a quella dei migranti, da quella del declino economico al terrore delle epidemie, l’Iraq e la Siria sono stati i luoghi dove l’Armageddon si è materializzata con i missili e i kalshinkov, dove il fondamentalismo islamico e quello cristiano si sono dati battaglia. Lì è stato applicato alla lettera quello  scontro di civiltà e religioni profetizzato da Samuel Huntington[1] dopo la caduta del muro di Berlino, che tanta morte aveva già causato nei Balcani, in Russia, in Africa e che sulle sponde del Tigri e dell’Eufrate avrebbe dovuto consumare la disfida finale.

Ora, se per fortuna in quelle terre non c’è stata la fine del mondo, lo si deve in gran parte alle vittime di quella follia globale. Il martirio dei cristiani, ad esempio, ha scosso le coscienze di una parte non irrilevante dei musulmani iracheni. Dopo la strage nella chiesa di Sayidat al Najat, a Baghdad, nell’ottobre 2010, da parte dell’Isis, il Grande ayatollah Ali al Sistani, leader degli sciiti, chiese al governo di proteggere i cristiani e i loro luoghi di culto. Opporre alla logica dell’odio quella della convivenza e perfino del perdono è un gesto veramente eroico in quel contesto in cui si scontrano bande armate di ogni sorta e religione.

Papa Francesco sa che c’è risentimento nell’animo di milioni di musulmani, non solo dei fondamentalisti, nei confronti degli occidentali e che esso comporta un’ostilità verso i cristiani che spesso si sono identificati con le nazioni coloniali e non solo nei secoli passati. È consapevole dei tentativi di cooptare i leader religiosi cristiani nella battaglia contro l’Asse del Male, operazione spesso riuscita e che egli ha definito «peccato grave di ipocrisia».

Per questo ha deciso di recidere alla radice le cause dell’incomprensione e di caricarsi del peso delle colpe passate e presenti per chiedere perdono e offrire pace. Si è presentato a Baghdad come «pellegrino penitente» e nel suo saluto all’arrivo alle autorità ha chiesto «perdono al Cielo e ai fratelli per tante distruzioni e crudeltà».

Perdono è stata la parola chiave del suo viaggio in Iraq. Un perdono chiesto ed offerto. Come quello di Doha Sabah Abdallah, la madre cristiana di Qaraqosh che ha visto uccidere suo figlio e suo nipote dalle bombe dell’Isis, e, davanti a Francesco, ha perdonato i loro assassini «perché il nostro Maestro Gesù ha perdonato i suoi carnefici». Perdono è la grande forza che serve al mondo per uscire dall’incubo dell’apocalisse.

I fabbricanti di morte che hanno terrorizzato il mondo si erano dati appuntamento sulla piana di Ninive per l’Armageddon. C’è stata distruzione, c’è stato sangue, milioni di persone sono fuggite, chiese e moschee distrutte. Ma alla fine i contendenti hanno perso tutti. Il Giorno del Giudizio è stato solo un incubo nei sonni di gente malata e ottenebrata dall’odio. La campana abbattuta dalla chiesa di Santa Maria al Tahira a Qaraqosh è stata rimessa al suo posto e il suo suono si spande nella Piana di Ninive. La storia ricomincia ogni giorno, con i suoi dolori e le sue speranze: la Chiesa di Francesco è lì ad accompagnarla.


[1] S. Huntington, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order (1996).

Papa Francesco a Mosul, Iraq (7 marzo 2021)

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