Se la realtà è più lieve delle utopie.
Intorno a Appunti da un’Apocalisse. Viaggio alla fine del mondo e ritorno, di Mark O’Connell
Mark O’ Connell, classe 1979, è un giornalista (collabora con The New York Times Magazine, Slate, The Guardian); in Italia, prima di Appunti da un’Apocalisse (Il Saggiatore, 2020), ha pubblicato Essere una macchina (Adelphi, 2018).
In quest’opera, chiarendo fin dall’inizio di essere ben distante dal pensiero transumanista, O’ Connell ci introduce in un mondo di persone ossessionate dalla ricerca dell’immortalità; la Alcor Life Extension Foundation, un’azienda fondata nel 1972 in Arizona, sembra dare risposta a questo desiderio attraverso la tecnologia crionica che, utilizzata al momento della morte, “surgela” il corpo in attesa di essere riportati in vita dagli scienziati del futuro; una versione più economica è quella della conservazione della sola testa, fino a quando “la tecnologia consenta di mappare ed emulare l’incalcolabile complessità dei miei percorsi e processi neurali, e a caricare poi il tutto su una piattaforma”.
In “Appunti da un’Apocalisse” la prospettiva transumanistica sembra più in controluce, per emergere in modo esplicito solo nella parte dedicata al progetto di colonizzazione di Marte.
Nel dipanarsi dei capitoli, si coglie l’intreccio di due piani della narrazione: il primo è, di fatto, un reportage dei luoghi visitati da O’ Connell alla ricerca dei segni della catastrofe allo scopo di prepararsi ad essa e di razionalizzare le sue paure; il secondo mira a mettere a nudo l’impalcatura ideologica, peraltro di matrice decisamente conservatrice, antidemocratica e radicalmente individualista, su cui si innestano progetti che, al contrario, appaiono estremamente avveniristici.
Sulle tracce dell’Apocalisse
Riguardo al primo livello, il lettore accompagna l’Autore in un viaggio alla ricerca dei segnali della catastrofe incombente, un’Apocalisse che si sta avvicinando in modo insidioso e tortuoso, al rallentatore (mentre la minaccia della guerra nucleare durante la Guerra fredda, aderiva a una struttura narrativa consolidata, con una trama e dei personaggi ben identificabili, ed era dunque assai più avvincente).
I protagonisti che incontriamo all’inizio di questo reportage, sono uomini impegnati nel prepping, ovvero la pratica del prepararsi alla fine del mondo, guardando migliaia di video “profondamente sconvolgenti” su YouTube, leggendo manuali che insegnano come affrontare la catastrofe usando semplici tecniche fai-da-te e partecipando a esperienze di allontanamento dalla civiltà come esercizio di sopravvivenza.
Nella maggior parte dei casi, questi individui, bianchi appartenenti alla middle class , si attribuiscono il ruolo di elite dell’umanità, di “portatori della fiaccola della civiltà” che, al momento giusto si coalizzerano per arginare la barbarie e l’anarchia dei cosiddetti selvaggi. L’Apocalisse, insomma, selezionerà un gruppo di esseri umani, bianchi, dotati di eroiche virtù mascoline come “proteggere moglie e figli usando un arco, eviscerare un cervo”, e preparati a nutrirsi di insetti liofilizzati.
Fin dall’inizio si evince una presa di distanza di O’Connell rispetto alla visione del mondo sottesa alle pratiche descritte, che viene definita razzista e strutturata attorno a un vuoto morale ben sintetizzato dalla definizione contenuta a pag. 42: “essere un prepper significava fare tutto il possibile per non finire tra chi soffre, senza contribuire in alcun modo a prevenire o alleviare le sofferenze altrui”.
Emerge qui un tema destinato a costituire il filo conduttore di tutte le esperienze narrate dall’Autore: l’idea che la salvezza sia individuale, il restringimento della fiducia negli altri e della responsabilità che abbiamo verso di loro, la convinzione che si possa sopravvivere da soli, il rifiuto di pensare che il nostro destino sia comune.
Questa dunque la prospettiva sottesa anche ai tentativi ben più costosi ed elitari di quelli, tutto sommato “artigianali”, descritti finora: i bunker di lusso in grado di proteggere da guerre nucleari, attacco di forze elettromagnetiche, gigantesche eruzioni, impatto di asteroidi e pandemie, costruiti da un magnate immobiliare nel Sud Dakota su un enorme terreno incolto, acquistato a poco prezzo, che fungeva un tempo da deposito militare e su cui sorgevano 575 magazzini di armi.
O, ancora, l’identificazione della Nuova Zelanda, da parte di una ristretta cerchia di supermiliardari del rango di Reid Hoffman (Linkedin), Peter Thiel (PayPal e finanziatore di Facebook), Sam Altman (imprenditore della Silicon Valley), come luogo dotato delle caratteristiche adeguate ad accoglierli come superstiti in previsione del collasso della civiltà e dove, pertanto, hanno già acquistato esclusive proprietà.
Thiel avrebbe affermato di non credere più che libertà e democrazia siano conciliabili; O’Connell ne conclude che, per i cosiddetti “tecnolibertari della Silicon Valley”, libertà significa poter godere delle loro enormi risorse senza doverle condividere e poter investire capitali enormi per inseguire l’ossessione dell’immortalità attraverso raffinate e avveniristiche tecnologie.
L’ideologia estrema a cui si ispirano queste persone è sintetizzata nel libro-culto “The Sovereign individual” di James Dale Davidson, pubblicato nel 1997, nel quale si prefigura l’estinzione delle democrazie liberali, che verranno sostituite da città-stato aziendali. Questo nuovo individuo sovrano “agirà nello stesso ambiente fisico dei comuni cittadini, ma in una dimensione politicamente separata”. La Nuova Zelanda viene indicata come il luogo ideale dove questa elite cognitiva potrà continuare a produrre ricchezza intanto che il mondo va a rotoli.
Il viaggio in Nuova Zelanda riserva un’altra esperienza degna di nota: la visita alla installazione “The Founder’s Paradox” di Simon Denny, figura di spicco sulla scena artistica internazionale. La mostra, ispirata a un’opera di Peter Thiel, ma anche al già citato Sovereign Individual, materializza il futuro utopico immaginato dai tecno libertari della Silicon Valley attraverso la sequenza di diverse fasi:
prima si acquistano terreni in Nuova Zelanda, per poi passare alla costruzione di isole artificiali in acque internazionali (dove “farsi gli affari loro senza l’interferenza dei governi democratici”), proseguendo con la costruzione di miniere sulla Luna per l’estrazione di minerali grezzi, per concludere con la colonizzazione di Marte (la fantasia futurista di Elon Musk).
Il viaggio di O’ Connell si snoda ancora attraverso due tappe: la visita alla Zona di alienazione di Cernobyl, un luogo dove la catastrofe è già avvenuta e dove prendono corpo le fantasie su come sarà il pianeta nell’era postapocalittica; infine la settimana organizzata da un’associazione ambientalista ad Alladale in una riserva “selvaggia” in cui vivere a contatto con la natura in uno degli ultimi territori delle Isole Britanniche rimasti selvaggi. Scopo dell’esperienza è allenarsi al mondo che sarebbe seguito alla catastrofe e nel quale sarebbero scomparse le distinzioni tra le categorie di “umano” e di “naturale”.
Il progetto transumanistico: l’utopia della colonizzazione di Marte
Al progetto della colonizzazione di Marte è dedicato l’intero capitolo 5 dal titolo “Colonia Extramondo”. L’Autore racconta di aver partecipato, nel 2018, a Los Angeles, al XXI ritrovo annuale della Mars Society, organizzazione con migliaia di iscritti e sezioni in 28 Paesi, una lobby politica finalizzata a promuovere la causa degli insediamenti su Marte.
Lo stesso Stephen Hawking era convinto che la terra avrebbe avuto ancora poco tempo da vivere e che gli esseri umani avrebbero dovuto cercarsi un altro pianeta.
Musk, in un discorso del 2012, ha esplicitamente collegato lo spirito da cui è scaturita l’idea dell’esplorazione e colonizzazione di Marte, a quello che ha caratterizzato i primi coloni della storia americana (bianchi e animati da spirito di conquista coloniale). La Mars Society ha peraltro già pronta una cripto valuta con cui finanziare il progetto di colonizzazione e che sarà la moneta utilizzata nella futura colonia.
O’ Connell non vede nell’impresa dell’esplorazione di Marte solo l’idea di “un pianeta di riserva nel caso sulla Terra qualcosa vada storto”, ma il mezzo con cui, chi ne ha le possibilità economiche, può trascendere completamente il mondo umano, lasciandosi alle spalle il pianeta d’origine. “Fuggire dalla Terra fa leva su un desiderio di trascendenza, (…) sul desiderio di farla finita con il mondo stesso” Si tratta di una tra le possibili espressioni del transumanesimo: ripudiare la Terra significa ripudiare l’imperativo materno della cura, ma la cura, a sua volta, esprime la nostra condizione di libertà situata, di contingenza e di dipendenza.
In ultima analisi il progetto della colonizzazione di Marte è il mezzo per raggiungere una nobile autosufficienza, la salvezza individuale, la realizzazione del sogno di sciogliere qualsiasi legame e obbligo nei confronti delle altre persone.
Conclusioni: il presente, dono fragile e contingente, ma così meraviglioso
C’è un elemento che ricorre in Essere una macchina, in Appunti da un’Apocalisse e nell’articolo Cambiare fa paura; un fattore apparentemente poco significativo rispetto ai roboanti progetti di immortalità o di conquista di nuovi spazi dell’universo, ma che invece ha una enorme dignità culturale, tanto da costituire un capovolgimento del paradigma interpretativo sotteso al transumanesimo.
Nell’opera del 2018, dopo aver comunicato che tra qualche decennio la mente di un essere umano potrebbe essere sradicata dalla massa gelatinosa che ne contiene i dati, per essere poi installata su un supporto tecnologico molto più resistente di un corpo biologico, leggiamo le seguenti considerazioni: “Che capolavoro è l’uomo, pensavo, che quintessenza di polvere. Pochi minuti dopo, mia moglie è entrata in camera da letto, con mani e ginocchia a terra e nostro figlio sulla schiena che si teneva stretto al colletto della sua camicia (…) Nulla di tutto questo- ho pensato-sarebbe mai traducibile in stringhe di codice, né potrebbe accadere in assenza del nostro speciale sostrato. La bellezza di mia moglie e del nostro bambino era corporea, nel senso più profondo, triste e meraviglioso”
In Appunti da un’Apocalisse, nella descrizione di un anno di caldo eccezionale e di siccità assolutamente insolita in Irlanda (ancora i segni della fine imminente del mondo), si insinua qualcosa che cambia la prospettiva da cui guardare il mondo: la nascita della seconda figlia. Seguendo la logica dell’angoscia per il futuro, più volte l’Autore si interroga sulla sanità mentale di chi mette al mondo bambini in un mondo destinato a riservare scenari profondamente inquietanti, ma quell’evento entrato nella sua esistenza scardina la logica precedente: ora prevale lo stupore per il puro fatto che quella vita c’è. Leggiamo “ ma è altrettanto vero, anzi forse più vero, quando dico che la sua esistenza ha amplificato il mio coinvolgimento nel mondo, la sensazione che una gioia onnipresente sia possibile, che il futuro sia un regno di possibilità fertili, di vita (…) pensando a lei, a questa persona amatissima ed essenzialmente misteriosa, la prima parola che mi viene in mente è splendente.
A volte mi dimentico che dovrei pensare alla fine dei tempi, incanalare le forze apocalittiche della nostra epoca, metabolizzare il disagio, le visioni fugaci di disintegrazione e dissoluzione. A volte vivo solo nel presente, che al momento è un buon posto dove stare”.”
Citando Hanna Arendt, O’ Connell conclude che “nelle questioni umane è ragionevole aspettarsi l’inaspettato” e questa bambina, che prima non c’era e adesso c’è (da dove è venuta?) riapre tutta la ragionevolezza della speranza. L’articolo, invece, chiude con queste parole: “ Anche se, quando ho finito il libro, il futuro non mi sembrava meno oscuro di quando l’ho iniziato, ho imparato, strada facendo, che è possibile uscire dalla sua ombra ed entrare nel presente, nel quale viviamo (…)e questo presente è l’unico posto in cui posso essere, l’unico da cui posso scrivere. Ma voi, lettori, siete nel futuro. Spero che lì le cose vadano bene. Spero che le cose migliori siano più numerose delle peggiori. E se non è così, spero che questo libro porti un po’ di chiarezza, compagnia o speranza. Sto alla finestra.”
Questi spunti, seppur con accenti diversi, fanno emergere una delle questioni fondamentali che la prospettiva transumanista elude: il riconoscimento che quel dato della realtà che è la nostra esistenza, con tutto ciò che essa genera (i legami con le persone che amiamo, il lavoro, ciò a cui ci dedichiamo con interesse e passione), sono qualcosa di non scontato, qualcosa che suscita in noi affezione, meraviglia, speranza (lo stare alla finestra). In fondo lo scoppio della pandemia ha reso reali le paure di cui il libro parla, eppure proprio quella realtà è più lieve delle ossessioni apocalittiche, può addirittura essere l’opportunità di un cambiamento.