Marco Cecchini è un economista, giornalista e scrittore che con il libro “L’enigma Draghi” ha voluto presentare una delle figure più complesse e singolari che rappresentano l’eccellenza dei grandi economisti del nostro Paese, al di là dei giudizi positivi o negativi.
Trattare la biografia di Mario Draghi non è cosa semplice né tantomeno scontata.
Si entra in un mondo sofisticato e oscuro ai più, quello della finanza globale e dei suoi protagonisti, che gestiscono quantità incommensurabili di denaro e condizionano l’operato degli Stati e la vita degli individui. Draghi con questo mondo ha flirtato, talvolta lo ha sfidato e nella parte finale della sua vita professionale ha ingaggiato un braccio di ferro in cui la posta in gioco era la sorte dell’Europa e lo ha vinto.
Appassionanti in Draghi non sono solo i successi, molti e riconosciuti da tutti, ma il percorso che ha seguito per conseguirli.
Il suo metodo rivela il carattere dell’uomo, delle sue esperienze di vita, della sua formazione. È il “metodo Draghi”, un criterio unico e irripetibile poiché insito nella sua stessa natura di uomo, e certamente la sua vicenda non può essere separata dal contesto in cui si è svolta, quello di un’Europa spesso divisa e a tratti senza bussola, in un periodo storico che va dalla madre delle crisi finanziarie, quella del 1992, ad oggi. L’autore vuole raccontare la storia umana e professionale di un italiano sui generis che si è trovato a guidare istituzioni nazionali ed internazionali di grande prestigio in una fase storica molto difficile ed ha assolto il compito facendo della riservatezza una religione e della competenza una missione.
L’autore descrive l’uomo coraggioso che con la frase “whatever it takes” alla Global Investment Conference annuale del 2012 convince i mercati finanziari che scommettere contro la moneta unica potrebbe essere un errore e i mercati rimbalzano. Trascina l’Europa monetaria fuori dalle secche in cui si era arenata e salva il sistema dall’autodistruzione.
Ciononostante questa frase è solo il punto di arrivo di un lungo cammino, che come Direttore Generale del Tesoro prima, Governatore della Banca d’Italia poi, con un intermezzo alla Goldman Sachs, disegna l’immagine di un civil servant europeo di grande successo, di un uomo che non ha mai mostrato di apprezzare la retorica celebrativa, ma di cui tutti riconoscono la competenza, il carisma, il coraggio, la riservatezza estrema e la quasi freddezza del carattere, in parte riconducibili a fattori esistenziali.
Chi è Mario Draghi – la sua formazione
Nasce a Roma nel 1947. Primo di tre fratelli, all’età di 15 anni perde i genitori a poca distanza l’uno dall’altro ed è una sorella del padre a prendersi cura di loro.
Si sposa presto con una discendente di nobile stirpe imparentata con i Medici, dalla quale ha avuto due figli.
Sulla sua preparazione hanno avuto un’importante influenza la formazione all’Istituto dei Gesuiti di Roma, dove ha frequentato il liceo classico Massimiliano Massimo, e l’incontro con l’economista Federico Caffè.
L’insegnamento della scuola aveva l’obiettivo di formare un adulto competente, indipendente e responsabile, un leader al servizio degli altri, e seguiva i dettami della Compagnia di Gesù. Per Cecchini, i Gesuiti sono un raffinato braccio intellettuale della Chiesa che concepisce la salvezza come sempre possibile per l’uomo dotato di buona volontà, al contrario del movimento giansenista, convinto che l’essere umano nasca corrotto e che quindi pochi siano i predestinati alla salvezza. Uno scontro tra flessibilità e rigore, interpretazione delle regole e loro ferrea applicazione, ottimismo e pessimismo. Due visioni con le quali Draghi si troverà a fare i conti lungo tutto l’arco della sua vita professionale.
Determinante fu l’incontro con l’economista Federico Caffè, socialdemocratico, polemista, consulente della Banca d’Italia, figura di grande rilievo nel panorama accademico nazionale perché è lo studioso che ha diffuso nel nostro Paese il pensiero economico di Keynes, quello di una società fondata sul welfare e sulla piena occupazione.
Con Caffè, Mario Draghi si laurea nel 1970 all’Università La Sapienza di Roma con una tesi che si intitolava “Integrazione economica e variazioni dei tassi di cambio”, in cui egli bocciava senza appello il Piano Werner, cioè il primo tentativo di creare una moneta unica europea, poiché riteneva che all’epoca non sussistessero le condizioni minime per il suo successo.
Caffè lo introdusse anche alla conoscenza del pensiero di altri economisti (Hicks, Schumpeter, Samuelson, Friedman), occasioni per aprire la mente e sprovincializzarsi.
Nel 1971 su suggerimento di Caffè entra al Massachusetts Intistute of Technology (Cambridge, Massachussetts, Usa), una delle più importanti Università del mondo, dov’era docente Franco Modigliani (Premio Nobel per l’economia per i suoi lavori sul risparmio e i mercati finanziari).
Quattro anni dopo Draghi conseguì il dottorato con una tesi ricca di analisi matematica, di cui erano relatori Modigliani e Solow, due futuri premi Nobel appartenenti alla scuola keynesiana.
In quel periodo il paradigma keynesiano era oggetto negli Stati Uniti di una profonda revisione e Draghi allargò l’orizzonte del suo pensiero ai diversi approcci teorici che si stavano diffondendo nel mondo del dopo Keynes. Gli economisti americani stavano riscoprendo il valore del mercato e i limiti di un eccessivo intervento pubblico. In particolare riscoprivano l’importanza della politica monetaria nell’armamentario degli strumenti della politica economica.
Draghi potè quindi rientrare in Italia con un bagaglio culturale arricchito e in linea con i nuovi tempi.
Si avviò dunque alla carriera universitaria con l’aiuto di Caffè, diventando professore ordinario a Firenze.
In Draghi i principi cardine di Caffè sembrano aver retto all’usura del tempo: è cambiato il giudizio sull’integrazione europea e sull’euro, sono cambiati gli schemi di analisi sul funzionamento dei sistemi economici, ma non la valutazione sulle scelte di metodo e sui valori profondi, tanto che, intervenendo all’Università La Sapienza di Roma nel 2012 in un convegno sulla figura dell’economista, dirà: «Caffè ci ha insegnato a scoprire noi stessi, a pensare con la nostra testa, non a seguire un credo vincolante. Ci ha insegnato che la piena occupazione non è un mezzo per accrescere la produzione, bensì un fine in sé, una questione di dignità della persona. La politica economica deve agire per conseguirla».
La sua carriera
Dopo il dottorato di ricerca, dal 1975 al 1978 insegna alle Università di Trento, Padova e Venezia.
Dal 1981 a Firenze è Professore Ordinario di Economia e Politica Monetaria.
Nel 1983 diventa consigliere di Giovanni Goria, ministro del Tesoro nel Governo Craxi e, a seguito di questo incarico, tra il 1984 e il 1990 a soli 37 anni è Direttore Esecutivo della Banca Mondiale a Washington.
Diventa inoltre Presidente del Comitato Economico e Finanziario dell’Unione Europea ed entra a far parte del consiglio d’amministrazione di molte banche e aziende pubbliche.
Dal 1991, su indicazione di Carlo Azeglio Ciampi, all’epoca Governatore della Banca d’Italia, viene nominato Direttore Generale del Ministero del Tesoro, dove rimarrà fino al 2001, e verrà confermato da tutti i governi successivi: Amato I, Ciampi, Berlusconi, Dini, Prodi, D’Alema I e II e Berlusconi II.
Il metodo Draghi
Nei dieci anni alla guida della Direzione generale del Tesoro, Draghi ha partecipato alla realizzazione di tre fondamentali obiettivi: l’ingresso nell’euro, l’attuazione del più vasto programma di privatizzazioni del mondo occidentale dopo quello del Regno Unito, il Testo Unico sulla Finanza conosciuto anche come “Legge Draghi” e la creazione di una struttura di supporto e analisi di eccellenza al Ministero dell’Economia.
È allora che ha cesellato uno stile di lavoro che diventerà il “metodo Draghi”, che si riassume in quattro punti cardine:
- identificare l’obiettivo: quando deve affrontare una situazione che va riformata, egli sa molto bene dove vuole arrivare, studia la situazione, gli uomini e le strutture, poi riprende in mano il processo di riorganizzazione;
- circondarsi di collaboratori validi: Draghi valuta le persone in relazione a quanto sono funzionali rispetto all’obiettivo che si è prefissato. Arrivato in Via XX Settembre, ad esempio, chiamò a collaborare giovani economisti e giuristi con esperienze di studio all’estero, insieme ad esperti di lungo corso, dotandosi di una task force in grado di competere con i migliori uffici studi del Paese e si circondò di un manipolo di fidati consiglieri;
- delegare: Draghi non è un accentratore, è un uomo sicuro di sé che delega molte materie a collaboratori fidati per dedicarsi ai dossier che ritiene prioritari, anche se concede la sua fiducia con parsimonia. Ad esempio, per le questioni di finanza pubblica si affidò alla struttura della Ragioneria dello Stato e ai consigli degli esperti della Banca d’Italia. La sua attenzione invece si concentrò da subito su due attività che gli parevano di importanza prioritaria: il processo di privatizzazione e l’attività di negoziatore nei fori internazionali, che gli permetteranno di costruire una preziosa rete di rapporti di relazioni personali. All’epoca il servizio Relazioni internazionali non era l’ufficio più prestigioso della struttura, ma Draghi capì che quello era il centro di una ruota da cui partivano molti raggi e altrettante opportunità di crescita per il Dipartimento in una prospettiva di lungo periodo;
- decidere dopo aver ridotto al minimo i rischi: Draghi si prende tutto il tempo che serve per valutare, esamina attentamente tutte le opzioni, studia il contesto in cui si colloca la scelta, chi potrebbe trarne vantaggi e chi no. Se necessario rinvia. E solo quando i rischi sono minimizzati al massimo, decide. E a quel punto non torna più indietro, non c’è più spazio per i ripensamenti. A volte questa lunga preparazione del terreno può sembrare un’inutile perdita di tempo, ma non lo è, alla luce delle premesse
Il prodotto che ne risulta è quello di un uomo molto pragmatico. Sembra che Draghi abbia quel tanto di cinismo rispetto ai mezzi che avrebbe un americano, la giusta dose di rigidità rispetto all’obiettivo di un tedesco e la grande cautela nelle scelte tipica di un italiano.
Giuliano Amato, che da Ministro del Tesoro ha conosciuto Mario Draghi nei tardi anni ‘80 a Washington, dove quest’ultimo era direttore esecutivo della Banca Mondiale e poi l’ha ritrovato, da Presidente del Consiglio del 1992, come responsabile della direzione generale che gestiva il debito pubblico, lo descrive come un uomo dai tratti essenziali: difficile vederlo perplesso, affrontava sempre le situazioni con sicurezza, quasi con distacco.
Da dove gli venivano questi modi? Dalla competenza e dall’uso che ne faceva, arrivando sempre preparato all’appuntamento con le scelte e con i fatti, così da convincere anche i titubanti con la superiorità dei suoi argomenti.
Ed è in questo che identificava il suo dovere istituzionale e non nell’essere a servizio di aprioristiche scelte politiche.
Ciò che serve semplicemente si fa.
I rapporti con il potere
In quegli anni, Draghi coltiva i suoi rapporti con la stampa, soprattutto straniera, con le istituzioni, con la politica, entra in contatto con i governatori, i ministri, anche degli altri Paesi: si fa rispettare sottraendosi, usa un linguaggio tendenzialmente tecnico, evita il più possibile di apparire, se non è strettamente necessario. All’inizio della corsa verso l’euro gli organi d’informazione internazionali lo avevano stimato un alto dirigente della pubblica amministrazione italiana, ma pur sempre un tecnico puro. Con l’ingresso dell’Italia nell’Europa monetaria e l’avvio di un ambizioso processo di privatizzazioni di cui tirava le fila, comincia ad essere considerato non più soltanto uno stimato tecnico, ma la più importante figura dietro le riforme in Italia.
Dopo l’ingresso della lira nell’euro, una volta avviate e portate a compimento le principali privatizzazioni, alla fine del 1999 Draghi sentiva che era arrivato per lui il momento di guardare ad altro. Poteva contare sulla sua fitta rete di relazioni americane, che non aveva abbandonato neppure nell’intenso periodo della corsa all’euro, interlocutori che negli anni a venire sarebbero diventati protagonisti assoluti della scena internazionale e che potevano risultare preziosi per muoversi in più direzioni, verso il settore bancario privato e verso le grandi istituzioni internazionali. Inoltre aveva compiuto il tragitto più importante del suo cammino professionale con uomini – come Amato, Carli, Ciampi, Prodi – a cui era legato da profonde affinità culturali, uomini di studio, che avevano una proiezione internazionale e condividevano gli stessi valori, anche se non sempre il loro approccio ai problemi coincideva alla perfezione: questi uomini e le loro idee negli ultimi anni avevano guidato l’Italia. Ma ora l’aria stava cambiando. La situazione politica era in evoluzione: il centrosinistra appariva debole e sfiancato dalle divisioni interne, mentre il centrodestra era in netta crescita. Con la vittoria trionfale del centrodestra nel 2001, come Ministro del Tesoro fu nominato Giulio Tremonti, da cui Draghi non poteva essere più diverso. Tremonti era un giurista, Draghi un economista. Prevalse la legge dell’incompatibilità tra i due, e Draghi manifestò il suo desiderio di voler respirare aria nuova.
Dopo un breve periodo di permanenza alla School of Government di Harvard, nel periodo dal 2002 al 2005 viene chiamato alla Goldman Sachs, una delle banche d’affari più potenti del mondo dove entra a far parte del Comitato Ristretto dell’intero gruppo a New York , arricchendo la sua conoscenza delle dinamiche dei mercati.
Il passaggio dal Tesoro alla Goldman Sachs solleva tuttavia forti perplessità.
All’epoca non esistevano norme che disciplinassero la materia del conflitto d’interessi dei dirigenti pubblici. Lo stesso Draghi, nel preannunciare alla stampa il suo soggiorno ad Harvard, lo aveva giustificato anche con “la regola che in questi anni ho imposto ai miei collaboratori, impedendo loro di passare direttamente dal Tesoro a incarichi in società o banche”. Ma il fatto che lui, regista delle privatizzazioni, accettasse comunque un incarico di così alto livello in una banca coinvolta in molte delle dismissioni italiane lo esporrà a molte critiche interne ed esterne.
Poco dopo la sua nomina alla guida della Banca d’Italia nel 2005, si affaccerà per Draghi il tema di un possibile conflitto d’interessi nella decisione sull’Opa – Offerta pubblica di acquisto – di Unipol, risolta con la formalizzazione del no della Banca d’Italia ad Unipol prima dell’insediamento ufficiale di Draghi. Nel 2011 dovrà difendersi dall’accusa di un suo coinvolgimento nella vendita da parte della Goldman Sachs di derivati alla Grecia, che le avrebbero permesso di entrare nell’eurozona attraverso l’uso di derivati finanziari e artifici contabili. Riuscì a dimostrare che la vendita era avvenuta anni prima che egli fosse assunto dalla Goldman Sachs e che in ogni caso quel tipo di accordo non rientrava nelle sue competenze, per cui non poteva esserne a conoscenza.
Nel 2012 la questione Goldman Sachs tornerà alla ribalta: la stampa tedesca rivelerà che Draghi partecipava al Gruppo dei Trenta, un club esclusivo di banchieri in larga misura esponenti della stessa Goldman Sachs e finanziato dalla stessa: in questo caso decise di uscire dal Gruppo dei Trenta per ragioni di opportunità.
Si difese sempre dalle accuse con la consueta perizia, ma l’intermezzo alla Goldman Sachs rimarrà una scelta controversa nella sua carriera.
La direzione della Banca d’Italia e le privatizzazioni
Arriva alla guida della Banca d’Italia nel 2006, succedendo ad Antonio Fazio che era stato travolto dagli scandali bancari e da inchieste giudiziarie. Dopo un aspro scontro tra le forze politiche su due esponenti di alto profilo, Padoa-Schioppa per il centrosinistra e Grilli per il centrodestra, la situazione era giunta ad uno stallo. Mario Draghi era l’uomo ritenuto super partes, gradito da entrambi gli schieramenti e benvoluto dal suo mentore Carlo Azeglio Ciampi, allora Presidente della Repubblica.
Il mandato a cui doveva assolvere era restituire all’istituto il prestigio di cui aveva sempre goduto, perciò il neo Governatore avvia un piano radicale di riassetto interno che prevedeva, oltre ad una semplificazione della burocrazia e dei rapporti personali, la chiusura di molte filiali e la smobilitazione del personale, ma soprattutto rendeva possibili storiche fusioni bancarie.
È il periodo delle privatizzazioni.
Un processo reso possibile grazie all’allentamento dei rapporti tra Banca d’Italia e gli istituti di credito, più dialoganti e meno gerarchici.
Ma se alcune fusioni-acquisizioni si rivelarono valide, altre non lo furono in egual modo. È il caso di Monte Paschi di Siena e Antonveneta: l’acquisizione autorizzata da via Nazionale in assenza di una preventiva diligence di terzi, si rivelerà un disastro che qualche anno dopo porterà Monte Paschi ad un virtuale fallimento, con riflessi negativi sull’intero sistema bancario italiano. Nel 2013 le vicende di MPS richiameranno l’attenzione dei media internazionali sull’operato di Draghi, che anche in questo caso si difenderà attribuendo le polemiche scoppiate in Italia al clima infuocato delle imminenti elezioni e che Banca d’Italia aveva fatto il suo dovere: all’epoca la normativa non prevedeva l’assistenza di due diligence indipendenti, perciò con quei poteri Banca d’Italia non avrebbe potuto fare di più.
Le privatizzazioni hanno smantellato un sistema di potere, hanno inciso su interessi consolidati, hanno rimescolato le carte del capitalismo italiano. Inevitabilmente perciò Draghi finì per essere il bersaglio di attacchi da parte del mondo che si sentiva penalizzato dalla sua azione.
Nel 2008 fu fortemente attaccato dal senatore Francesco Cossiga, che lo giudicò un vile affarista, il liquidatore dell’industria pubblica italiana. La Repubblica di Eugenio Scalfari lo giudicò un giovane rampante yuppie americano, ma il ministro Ciampi difese la professionalità e lo stile di Draghi con una lettera allo stesso quotidiano. Più difficile fu gestire l’accusa di essere il grande burattinaio legato alla finanza angloamericana, che nel 1992 sul panfilo della regina Elisabetta, il Britannia, svendette l’Italia al grande capitale. Su questa vicenda i politici presentarono più di un’interrogazione parlamentare e nel 1993 Draghi fornì la sua ricostruzione dei fatti. Con l’autorizzazione di Carli, salì sul Britannia ancorato nel porto di Civitavecchia e fece una relazione introduttiva sul tema delle privatizzazioni “politicamente neutra”, poiché vi si diceva che non era quello il momento per chiedersi quanto rapido sarebbe potuto essere il processo. Non voleva cioè sbilanciarsi in previsioni che erano fuori del suo controllo. Finito il discorso, Draghi scese a terra e non partecipò alla minicrociera che era prevista, per non compromettersi con banchieri che avrebbero potuto partecipare alle dismissioni.
Il processo delle privatizzazioni è appena iniziato quando nel 2007, quale Presidente del Financial Stability Forum – gruppo sovranazionale che unisce ministri delle finanze e banchieri centrali dei Paesi G7, con lo scopo di garantire la stabilità finanziaria dei mercati – Draghi appronta un rapporto sulle turbolenze che hanno investito i mercati mondiali a seguito della crisi dei mutui statunitensi e ne indica i possibili rimedi: nuove regole di trasparenza, iniezioni di liquidità, svariate policy per rafforzare il sistema ed evitare che simili episodi possano ripetersi in futuro. L’FSF, quando Draghi ne assunse la presidenza, non era un incarico particolarmente ambito, poiché i poteri di cui godeva l’istituzione erano piuttosto deboli. Ma con lo scoppio della crisi finanziaria l’organismo accrebbe di rango diventando Financial Stability Board, e si occuperà di ridisegnare le regole della finanza con lo scopo di prevenire e gestire le crisi. Draghi si troverà ad essere l’interlocutore dei Capi di Stato e di governo di 20 Paesi e il suo lavoro diventerà un elemento importante del suo gradimento su scala mondiale. Nel frattempo, dopo le elezioni del 2008, Berlusconi tonerà al governo, e con lui Giulio Tremonti, riaprendo gli antichi dissapori e le tensioni con Mario Draghi.
Tremonti non sopportava che la Banca d’Italia “interferisse” in ambiti che giudicava di esclusiva responsabilità politica e criticò sempre le decisioni prese dall’FSB per arginare la crisi, ritenendo che curassero gli effetti ma non le cause. Oltre alla crisi interna, tra il 2007 e il 2008 sui maggiori paesi industrializzati si era abbattuta la crisi finanziaria globale, che nessuno aveva previsto e il cui epicentro era negli Stati Uniti. Il fallimento di Lehman Brothers, uno degli storici gruppi americani, trascinò nel panico le borse mondiali. In Italia l’impatto era stato assai minore, a causa della minor presenza nei bilanci delle banche di prodotti tossici legati alla diffusione dei subprime, e ciò indusse Draghi a rilevare la solidità e la resistenza del sistema vigilato dalla Banca d’Italia nei confronti della crisi finanziaria.
Draghi si rendeva conto che prima o poi essa avrebbe impattato sul credito, ma vedeva la crisi dal punto di vista del regolatore e nei suoi interventi pubblici rilanciava il ruolo dell’FBS come strumento principe a disposizione dei Paesi del G20.
La guida della BCE
Nel 2011, malgrado la sua candidatura venisse messa in discussione proprio a causa del periodo trascorso in Goldman Sachs, trova l’appoggio di Angela Merkel e con il successivo accordo dei leader UE, viene nominato Governatore della Banca Centrale Europea e lascia l’incarico di governatore della Banca d’Italia, che verrà occupato da Ignazio Visco.
Draghi chiede subito ai Paesi dell’UE di recuperare la propria affidabilità, dichiarando che serve un segnale forte per i mercati e, se necessario, anche una revisione dei trattati in funzione di una politica di bilancio omogenea.
Nel 2012 con l’ormai famoso “Whatever it takes” (faremo di tutto perché l’euro resista) alla speculazione che stava attaccando una moneta senza Stato, salverà l’euro, riuscendo a ben gestire la crisi del debito sovrano europeo in un momento molto delicato, quando la crisi finanziaria stava per contagiare grandi economie, come la spagnola e l’italiana.
Nel 2015 ha lanciato l’atteso Quantitative Easing, con cui la BCE ha acquistato titoli di stato dei Paesi dell’Eurozona fino al settembre 2016.
Quantitative Easing letteralmente significa “facilitazione quantitativa”, una manovra che viene impiegata per far girare l’economia. In pratica se il denaro circola, viene prestato, investito e speso, l’economia gira, il PIL – Prodotto Interno Lordo – sale e con esso l’occupazione. Se invece si formano dei “grumi” che impediscono al denaro di circolare, l’economia rischia l’infarto e il sistema creditizio si blocca. Il Quantitative Easing venne lanciato in conseguenza dei conseguenza dei forti attacchi all’euro poiché tutti gli altri metodi normali non avevano funzionato: vennero abbassati i tassi d’interesse e fissati dei tassi negativi per le somme depositate presso la stessa BCE.
Nel 2019 ha terminato il mandato di Presidente della BCE.
Draghi e la politica
Draghi è un tecnico con grandi capacità di manovra politica.
Politicamente è un liberal-socialista. Non ha mai dato l’impressione di essere minimamente interessato alla politica in sé e nemmeno agli incarichi ad essa connessi. La “politica politicante” è un’attività lontana anni luce dalla sua visione delle cose e dai suoi interessi. Non ha una grande opinione dei politici in generale, seppur con le dovute eccezioni, e neppure ha mai mostrato particolare fiducia nei governi tecnici e fino a quest’anno ha sempre rifiutato le offerte, che pure gli sono state rivolte, di ricoprire incarichi di governo. Ha invece sempre prestato particolare attenzione al suo rapporto con la politica e con il potere in genere, e non avrebbe potuto fare altrimenti nella sua posizione, consapevole che in determinati ruoli non è possibile prescindere da un contesto politico, sia esso nazionale o internazionale, a patto che a ciascuna delle parti sia lasciata una ragionevole libertà d’azione nel suo campo. Salvo rare eccezioni, intrattiene con i politici un rapporto di tipo utilitaristico: è persuasivo, li fa sentire importanti e nello stesso tempo li sovrasta con la sua competenza. A tal fine ha costruito buoni rapporti anche con i numeri due dei politici, che sono in grado di influenzare le scelte dei primi stando dietro le quinte.
Una volta entrato al Tesoro, si rese conto che il faro della politica sull’operato dei tecnici era sempre acceso, perciò decise di farne un fortino inattaccabile dagli appetiti esterni. Ad esempio, da Presidente del Comitato di gestione della SACE – Società per Azioni del gruppo italiano a partecipazione pubblica specializzata nel settore assicurativo-finanziario – resistette alle sollecitazioni esterne fino a che l’Ente non fu completamente riformato e reso autonomo da improprie influenze: comprese in quell’esperienza che con la politica occorreva tenere una distanza di sicurezza, dialogare ma non lasciarsi condizionare. Ha sempre conservato tuttavia rapporti particolari con i politici più rispettosi della diversità altrui e meno coinvolti nel gioco vivo dei partiti (Gianni Letta).
Conclusioni
Mario Draghi ha seguito in un certo senso lo stesso principio per tutta la sua carriera.
Ha calcolato con cura i rischi delle sue mosse, ha cercato di ridurli al minimo e ha agito quando riteneva che il momento opportuno fosse arrivato.
Ma se è vero che ha vinto le battaglie, in alcuni casi non ha vinto la guerra: ad esempio, messo in sicurezza l’euro, la sua idea era di indurre le banche a finanziare l’economia con la manovra dei tassi di interesse e stabilizzare il debito in un contesto di bilanci tendenti al pareggio e di riforme strutturali, cosa che avrebbe permesso all’Europa di uscire dalla stagnazione. Ma così non è stato.
Molti di quei banchieri che pur avevano lavorato con lui per otto anni stilarono un documento fortemente critico verso le politiche di Draghi, in cui ne contestavano la legittimità e l’efficacia. E ancora: perché Draghi a meno di due mesi dalla fine del suo mandato aveva preso un’iniziativa di inversione a U nella rotta della politica monetaria? Perché non aveva lasciato che ad agire fosse la presidente in pectore, Lagarde?
La narrazione sul tema dell’eredità di Draghi non è univoca.
Il punto di partenza unanimemente riconosciuto sul suo operato è che si è preso tutta la responsabilità di fare “tutto ciò che era necessario”, ma ciò non è bastato ai tecnocrati ed economisti tedeschi, che non lo hanno assolto sul mancato rispetto in più occasioni dei limiti del mandato. Di diverso avviso i policy maker del Sud Europa, che giudicano abbia solo fatto un uso innovativo e discrezionale degli strumenti per raggiungere la stabilità.
Alla fine dunque, chi ha ragione? Draghi è intervenuto sulla spinta dell’urgenza in una situazione in cui il sistema euro poteva crollare infliggendo un colpo mortale all’Europa unita. Così facendo ha forse allentato la pressione sui paesi indebitati con effetti negativi sul lungo periodo. Ma non c’erano alternative, bisognava agire qui e ora. Dunque, il giudizio dipende dalla prospettiva temporale nella quale ci si colloca.
Alla cerimonia di commiato dalla BCE ciascuno dei partecipanti stringe al petto, per così dire, un Draghi diverso: per ognuno di loro ha rappresentato qualcosa di diverso e lui è stato ciò che loro volevano che fosse.
Ma qual è il Draghi che ha tirato le fila di questa marcia inarrestabile di prestigio e potere?
L’economista o il policy maker?
Il keynesiano degli esordi o l’eclettico della maturità?
Un tecnocrate con capacità di manovra politica o un raffinato politico di elevate competenze tecniche?
Un civil servant europeo o un uomo fondamentalmente spinto dall’ambizione?
In un certo senso, come in una commedia di Pirandello, tutti e nessuno.
Draghi è un unicum.
Non ci sono chiusure aprioristiche nel mondo di Super Mario, ci sono obiettivi e modalità variabili per raggiungerli.
Lo hanno aiutato la competenza, il coraggio, la lucida scelta di collaboratori funzionali ai suoi scopi e la maschera imperscrutabile dietro cui celare i suoi reali obiettivi.
E ora, che cosa farà Mario Draghi? Si chiede Mario Cecchini alla fine della sua biografia.
L’esplosione della crisi epocale causata dal Covid 19 ha colpito gravemente l’Italia, ha aperto una prospettiva terribile di impoverimento, recessione e tensioni sociali, se la crisi non sarà adeguatamente gestita.
Riuscirà Mario Draghi, che ha un senso così forte di responsabilità verso il proprio Paese, a non raccogliere l’enormità della sfida?
L’autore nel suo libro, edito nel maggio 2020, ancora non sapeva che Mario Draghi ha deciso di raccogliere la sfida: a seguito delle dimissioni del governo Conte, ha accettato l’incarico conferitogli dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ed il 13 febbraio 2021 è diventato Presidente del Consiglio dei Ministri con un esecutivo composto da esponenti politici e da tecnici indipendenti, sostenuto da una maggioranza allargata a quasi tutti i partiti presenti in Parlamento.
Alla luce dei suoi trascorsi professionali, seguiamo con interesse questa nuova fase della sua carriera professionale.
Complimenti Cristina.