Venerdì 6 novembre Federico Rampini, corrispondente dagli Usa di Repubblica, scrive qualcosa fuori dal coro. Queste elezioni danno una idea di America diversa da quella solitamente rappresentata. Il rigetto di massa di Trump non c’è stato, c’è stato invece il rigetto censorio e concretissimo con il quale i grandi media e i social hanno bloccato i post di Trump, ossia oscurandoli, e parliamo di Twitter, Facebook e altri.
Ci dicono che ha vinto la Silicon Valley e la sua ideologia, dominante ormai in tutto il mondo. Il regno di ogni libertà crolla e fa scegliere alle aziende dominanti e le lascia libere di infrangere principi sacri per ogni americano. Per fortuna c’è chi se ne accorge.
Scrive Rampini: “Ricordiamolo: questo presidente che i media di riferimento ( Cnn, New York Times, Washington Post ) davano per spacciato ogni due o tre mesi – Russiagate, impeachment , coronavirus, recessione, George Floyd – ha chiuso il suo mandato con lo stesso livello di consensi con cui lo aveva iniziato. Minoritario ma stabile. Si capisce perché la sua teoria del complotto, per quanto menzognera, risulti verosimile ai suoi seguaci.
Rivediamo il replay degli ultimi sei mesi: è dall’inizio del 2020 che i sondaggi e i principali media hanno cominciato a prefigurare un’Onda Blu inesistente, hanno assegnato a Biden dei vantaggi irreali. L’idea che l’establishment potesse pianificare l’estromissione di Trump è falsa ma credibile. Che di establishment si tratti, lo dimostra la sproporzione nei mezzi economici: negli ultimi due mesi della campagna un fiume di denaro si è rovesciato su Biden, che ha potuto spendere in spot televisivi quasi il doppio di un presidente in carica, uno squilibrio senza precedenti se non risalendo a Hillary Clinton, anche lei plebiscitata da Wall Street, dalla Silicon Valley, dai poteri forti del capitalismo.
Il popolo trumpiano, la classe operaia del Midwest che ha continuato a sostenerlo, non ha dubbi su quale sia il “confine di classe”. Ad alimentare la teoria del complotto arriva anche la censura. Nel Paese dove vige la più estrema libertà di espressione, dove il Primo Emendamento tutela perfino l’apologia del nazismo, i grandi social media e i principali network televisivi hanno oscurato le esternazioni del presidente. Che fossero delle bugie spudorate e pericolose, è indiscutibile. Però si crea un precedente, quando i chief executive di Facebook e Twitter, nonché dei tre principali network Abc Cbs Nbc , diventano gli arbitri di ciò che si può pubblicare. Accadde in tempo di guerra, da Abraham Lincoln a Franklin Roosevelt, con leggi speciali sulla censura solitamente revocate al termine dei conflitti.
Ora è la proprietà privata dei maggiori gruppi digitali e organi d’informazione a decidere che l’America è in guerra per difendere la democrazia. Il loro punto di vista è legittimo; forse incostituzionale; di sicuro conferma nel popolo trumpiano l’idea che questa elezione ha una regìa. Non è vero – anzi la magnifica partecipazione di 160 milioni di cittadini, il 67% degli aventi diritto, è stata una prova di vitalità del suffragio universale. Attenzione a non equivocare quella grande affluenza: ciascuna delle due Americhe si è mobilitata perché teme le prevaricazioni dell’altra”.